Integrazione è essere un uomo di pace

Integrazione è essere un uomo di pace

“Sono Jawad, rifugiato dall’Afghanistan. Sono di etnia Hazara e questo già dice molto della mia vita almeno per chi conosce la storia del mio paese. I problemi per gli Hazara sono iniziati ancora prima della mia nascita. Esclusi, emarginati, relegati tra le montagne, ridotti in schiavitù, perseguitati, uccisi: questa è la storia del mio popolo da più di 50 anni.

E così a 13 anni, come tanti altri, senza darmi troppe spiegazioni, mio padre mi dice di partire, di andare, di non restare. Era pericoloso restare, figlio maschio, in un paese in cui anche i bambini combattono, uccidono e muoiono. Le rotte per chi scappa dall’Afghanistan sono battute e conosciute, tanti passi prima di me e tanti altri dopo i miei. Prima il Pakistan poi l’Iran.
I trafficanti, il deserto, le montagne.
Del mio viaggio ricordo la mancanza di cibo e acqua per giorni interminabili. Le corse nel deserto per non essere presi dalla polizia di frontiera che ci avrebbe rispedito indietro. Il camminare sulle montagne, di notte, al buio in fila indiana, in silenzio. Le montagne che dividono l’Afghanistan dall’Iran sono disseminate di mine antiuomo. Tanti su quelle montagne sono saltati in aria. Mentre camminavamo vedevamo i resti di chi non ce l’aveva fatta. I trafficanti ci obbligavano a fare la fila, uno dietro l’altro, in modo che se il primo calpestava una mina, gli altri erano salvi. Troppo rischioso per loro che morissimo in tanti. I patti erano chiari: il 20% alla partenza, ma l’80% del denaro pattuito, i trafficanti lo prendevano una volta arrivati a destinazione. Non conveniva a nessuno che si morisse più del necessario.

Arrivato in Iran ho cominciato a lavorare in una fabbrica di marmo. 15, 16 ore al giorno per due soldi e un posto dove dormire. Ogni mese mandavo i soldi a casa, sperando che prima o poi sarei tornato indietro. Non è stato così. Mio padre un giorno mi chiamò e mi disse: “non ti ho mandato via per farti restare ignorante. Impegnati a studiare, perché solo studiando potrai contribuire a costruire la pace”. Tramite un amico fui accettato alla scuola islamica in Iran e così ho ottenuto i primi documenti da rifugiato.
Ho vissuto per 18 anni in Iran studiando e lavorando. Nel frattempo frequentavo da privatista la scuola pubblica. Mi sono diplomato in matematica. Poi la laurea in Sociologia con una specializzazione in Storia.

Ora sono in Italia grazie a un visto che ho avuto per partecipare a un convegno di studi in Molise. Qui in Italia c’era la mia fidanzata, anche lei afgana, aveva ottenuto anni prima una borsa di studio in ingegneria chimica.
Ci siamo sposati e trasferiti a Bologna dove per vivere consegnavo la pizza a domicilio e studiavo l’italiano, meglio che potevo. Sapevo che per me e mia moglie comunicare era fondamentale prima di tutto il resto. Poi da lì a Roma per seguire un master in Religione e Mediazione Culturale.

Oggi abbiamo un bambino. Da quando c’è Mobin l’integrazione in Italia ha un significato nuovo: la sua lingua madre, l’italiano è per noi integrazione e la scuola che frequenta il primo luogo in cui la vediamo realizzata. Sognare di vederlo crescere qua è integrazione. Impegnarsi perché un giorno sia cittadino italiano è integrazione. Mio padre è morto ad agosto. Non sono potuto andare al suo funerale. Non ha conosciuto mio figlio. Per un soffio non gli ho potuto dire del diploma di master che prenderò fra poco.
Ma so che è orgoglioso di me e di quello che sono oggi.

L’integrazione per me è essere uomo di pace ogni giorno. Uomo del dialogo con tutti. Uomo che studia e ama la cultura perché, come ripeteva mio padre, solo chi studia può cambiare il mondo.”

Jawad
Testimonianza raccolta dal Centro Astalli

Leggi anche la testimonianza di Soumaila, rifugiato dal Mali, e di Osman, rifugiato dalla Somalia.