3 Dicembre 2021 | Visita Apostolica

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO A CIPRO E IN GRECIA (2-6 DICEMBRE 2021) PREGHIERA ECUMENICA CON I MIGRANTI

Chiesa parrocchiale di Santa Croce a Nicosia

Cari fratelli e sorelle!
È una grande gioia trovarmi qui con voi e concludere la mia visita a Cipro con
questo incontro di preghiera. Ringrazio i Patriarchi Pizzaballa e Béchara Raï,
come pure la Signora Elisabeth della Caritas. Saluto con affetto e riconoscenza i
Rappresentanti delle diverse confessioni cristiane presenti a Cipro.
Un grande “grazie” dal cuore desidero dire a voi, giovani migranti, che avete
dato le vostre testimonianze. Le avevo ricevute in anticipo circa un mese fa e mi
avevano colpito tanto, e anche oggi mi hanno commosso, un’altra volta, a
sentirle. Ma non è solo emozione, è molto di più: è la commozione che viene
dalla bellezza della verità. Come quella di Gesù quando esclamò: «Ti rendo lode,
Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai
sapienti, ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). Anch’io rendo lode al
Padre celeste perché questo accade oggi, qui – come pure in tutto il mondo –: ai
piccoli Dio rivela il suo Regno, Regno di amore, di giustizia e di pace.
Dopo aver ascoltato voi, comprendiamo meglio tutta la forza profetica della
Parola di Dio che, attraverso l’apostolo Paolo, dice: «Voi non siete più stranieri né
ospiti, ma siete concittadini dei santi, familiari di Dio» (Ef 2,19). Parole scritte ai
cristiani di Efeso – non lontano da qui! –; molto distanti nel tempo, ma parole
vicinissime, più attuali che mai, come scritte oggi per noi: “Voi non siete
stranieri, ma concittadini”. Questa è la profezia della Chiesa: una comunità che –
con tutti i limiti umani – incarna il sogno di Dio. Perché anche Dio sogna, come
te, Mariamie, che vieni dalla Repubblica Democratica del Congo e ti sei definita
“piena di sogni”. Come te Dio sogna un mondo di pace, in cui i suoi figli vivono
come fratelli e sorelle. Dio vuole questo, Dio sogna questo. Siamo noi a non
volerlo.
La vostra presenza, fratelli e sorelle migranti, è molto significativa per questa
celebrazione. Le vostre testimonianze sono come uno “specchio” per noi,
comunità cristiane. Quando tu, Thamara, che vieni dallo Sri Lanka, dici: “Spesso
mi viene chiesto chi sono”: la brutalità della migrazione mette in gioco la propria
identità. “Ma io sono questo? Non lo so… Dove sono le mie radici? Chi sono?”. E
quando dici questo, ci ricordi che anche a noi a volte viene posta questa
domanda: “Chi sei tu?”. E purtroppo spesso si intende dire: “Da che parte stai? A
quale gruppo appartieni?”. Ma come ci hai detto tu, non siamo numeri, non
siamo individui da catalogare; siamo “fratelli”, “amici”, “credenti”, “prossimi” gli
uni degli altri. Ma quando gli interessi di gruppo o gli interessi politici, anche
delle Nazioni, spingono, tanti di noi si trovano messi da parte, senza volerlo,
schiavi. Perché l’interesse sempre schiavizza, sempre crea schiavi. L’amore, che
è largo, che è contrario all’odio, l’amore ci fa liberi.
Quando tu, Maccolins, che vieni dal Camerun, dici che nel corso della tua vita sei
stato “ferito dall’odio”, tu stai parlando di questo, di queste ferite degli interessi;
e ci ricordi che l’odio ha inquinato anche le nostre relazioni tra cristiani. E
questo, come hai detto tu, lascia il segno, un segno profondo, che dura a lungo.
È un veleno. Sì, l’hai fatto sentire tu, con la tua passione: l’odio è un veleno da
cui è difficile disintossicarsi. E l’odio è una mentalità distorta, che invece di farci
riconoscere fratelli, ci fa vedere come avversari, come rivali, quando non come
oggetti da vendere o da sfruttare.
Quando tu, Rozh, che vieni dall’Iraq, dici che sei “una persona in viaggio”, ci
ricordi che anche noi siamo comunità in viaggio, siamo in cammino dal conflitto
alla comunione. Su questa strada, che è lunga ed è fatta di salite e discese, non
devono farci paura le differenze tra noi, ma piuttosto sì, devono farci paura le
nostre chiusure, i nostri pregiudizi, che ci impediscono di incontrarci veramente e
di camminare insieme. Le chiusure e i pregiudizi ricostruiscono tra noi quel muro
di separazione che Cristo ha abbattuto, cioè l’inimicizia (cfr Ef 2,14). E allora il
nostro viaggio verso la piena unità può fare dei passi avanti nella misura in cui,
tutti insieme, teniamo lo sguardo fisso su Gesù, su di Lui, che è «la nostra pace»
(ibid.), che è la «pietra d’angolo» (v. 20). E Lui, il Signore Gesù, ci viene
incontro con il volto del fratello emarginato e scartato. Con il volto del migrante
disprezzato, respinto, ingabbiato, sfruttato… Ma anche – come hai detto tu – del
migrante che è in viaggio verso qualcosa, verso una speranza, verso una
convivenza più umana.
E così Dio ci parla attraverso i vostri sogni. Il pericolo è che tante volte non
lasciamo entrare i sogni, in noi, e preferiamo dormire e non sognare. È tanto
facile guardare da un’altra parte. E in questo mondo ci siamo abituati a quella
cultura dell’indifferenza, a quella cultura del guardare da un’altra parte, e
addormentarci così, tranquilli. Ma per questa strada mai si può sognare. È duro.
Dio parla attraverso i vostri sogni. Dio non parla attraverso le persone che non
possono sognare niente, perché hanno tutto o perché il loro cuore si è indurito.
Dio chiama anche noi a non rassegnarci a un mondo diviso, a non rassegnarci a
comunità cristiane divise, ma a camminare nella storia attratti dal sogno di Dio,
cioè un’umanità senza muri di separazione, liberata dall’inimicizia, senza più
stranieri ma solo concittadini, come ci diceva Paolo nel brano che ho citato.
Diversi, certo, e fieri delle nostre peculiarità; fieri di essere diversi, di queste
peculiarità che sono dono di Dio. Diversi, fieri di esserlo, ma sempre riconciliati,
sempre fratelli.
Possa quest’isola, segnata da una dolorosa divisione – sto guardando il muro, lì
[attraverso il portale aperto della chiesa] – possa diventare con la grazia di Dio
laboratorio di fraternità. Io ringrazio tutti coloro che lavorano per questo.
Pensare che quest’Isola è generosa, ma non può fare tutto, perché il numero di
gente che arriva è superiore alle sue possibilità di inserire, di integrare, di
accompagnare, di promuovere. La sua vicinanza geografica facilita…, ma non è
facile. Dobbiamo capire i limiti a cui i governanti di quest’Isola sono legati. Ma
sempre c’è in questa Isola, e l’ho visto nei responsabili che ho visitato,
[l’impegno] di diventare, con la grazia di Dio, laboratorio di fraternità. E lo potrà
essere a due condizioni. La prima è l’effettivo riconoscimento della dignità di ogni
persona umana (cfr Enc. Fratelli tutti, 8). La nostra dignità non si vende, non si
affitta, non va perduta. La fronte alta: io sono degno figlio di Dio. L’effettivo
riconoscimento della dignità di ogni persona umana: questo è il fondamento
etico, un fondamento universale che è anche al centro della dottrina sociale
cristiana. La seconda condizione è l’apertura fiduciosa a Dio Padre di tutti; e
questo è il “lievito” che siamo chiamati a portare come credenti (cfr ibid., 272).
A queste condizioni è possibile che il sogno si traduca in un viaggio quotidiano,
fatto di passi concreti dal conflitto alla comunione, dall’odio all’amore, dalla fuga
all’incontro. Un cammino paziente che, giorno dopo giorno, ci fa entrare nella
terra che Dio ha preparato per noi, la terra dove, se ti domandano: “Chi sei?”,
puoi rispondere a viso aperto: “Guarda, sono tuo fratello: non mi conosci?”. E
andare così, lentamente.
Ascoltando voi, guardandovi in faccia, la memoria va oltre, va alle sofferenze. Voi
siete arrivati qui: ma quanti dei vostri fratelli e delle vostre sorelle sono rimasti
per strada? Quanti disperati iniziano il cammino in condizioni molto difficili,
anche precarie, e non sono potuti arrivare? Possiamo parlare di questo mare che
è diventato un grande cimitero. Guardando voi, guardo le sofferenze del
cammino, tanti che sono stati rapiti, venduti, sfruttati…, ancora sono in
cammino, non sappiamo dove. È la storia di una schiavitù, una schiavitù
universale. Noi guardiamo cosa succede, e il peggio è che ci stiamo abituando a
questo. “Ah, sì, oggi è affondato un barcone, lì… tanti dispersi…”. Ma guarda che
questo abituarsi è una malattia grave, è una malattia molto grave e non c’è
antibiotico per questa malattia! Dobbiamo andare contro questo vizio
dell’abituarsi a leggere queste tragedie nei giornali o sentirli in altri media.
Guardando voi, penso a tanti che sono dovuti tornare indietro perché li hanno
respinti e sono finiti nei lager, veri lager, dove le donne sono vendute, gli uomini
torturati, schiavizzati… Noi ci lamentiamo quando leggiamo le storie dei lager del
secolo scorso, quelli dei nazisti, quelli di Stalin, ci lamentiamo quando vediamo
questo e diciamo: “ma come mai è successo questo?”. Fratelli e sorelle: sta
succedendo oggi, nelle coste vicine! Posti di schiavitù. Ho guardato alcune
testimonianze filmate di questo: posti di tortura, di vendita di gente. Questo lo
dico perché è responsabilità mia aiutare ad aprire gli occhi. La migrazione forzata
non è un’abitudine quasi turistica: per favore! E il peccato che abbiamo dentro ci
spinge a pensarla così: “Mah, povera gente, povera gente!”. E con quel “povera
gente” cancelliamo tutto. È la guerra di questo momento, è la sofferenza di
fratelli e sorelle che noi non possiamo tacere. Coloro che hanno dato tutto quello
che avevano per salire su un barcone, di notte, e poi… senza sapere se
arriveranno… E poi, tanti respinti per finire nei lager, veri posti di confinamento e
di tortura e di schiavitù.
Questa è la storia di questa civiltà sviluppata, che noi chiamiamo Occidente. E
poi – scusatemi, ma vorrei dire quello che ho nel cuore, almeno per pregare
l’uno per l’altro e fare qualcosa – poi, i fili spinati. Uno lo vedo qui: questa è una
guerra di odio che divide un Paese. Ma i fili spinati, in altre parti dove ci sono, si
mettono per non lasciare entrare il rifugiato, quello che viene a chiedere libertà,
pane, aiuto, fratellanza, gioia, che sta fuggendo dall’odio e si trova davanti a un
odio che si chiama filo spinato. Che il Signore risvegli la coscienza di tutti noi
davanti a queste cose.
E scusatemi se ho detto le cose come sono, ma non possiamo tacere e guardare
dall’altra parte, in questa cultura dell’indifferenza.
Che il Signore benedica tutti voi! Grazie.