Gentili Signori e Signore,
rivolgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto, con sentita riconoscenza per il vostro prezioso lavoro. Ringrazio Monsignor Tomasi per le sue cortesi parole e il Dottor Pöttering per il suo intervento; come pure sono grato per le tre testimonianze, che rappresentano dal vivo il tema di questo Forum: “Integrazione e sviluppo: dalla reazione all’azione”. In effetti, non è possibile leggere le attuali sfide dei movimenti migratori contemporanei e della costruzione della pace senza includere il binomio “sviluppo e integrazione”: a tal fine ho voluto istituire il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, all’interno del quale una Sezione si occupa specificamente di quanto concerne i migranti, i rifugiati e le vittime della tratta.
Le migrazioni, nelle loro diverse forme, non rappresentano certo un fenomeno nuovo nella storia dell’umanità. Esse hanno marcato profondamente ogni epoca, favorendo l’incontro dei popoli e la nascita di nuove civiltà. Nella sua essenza, migrare è espressione dell’intrinseco anelito alla felicità proprio di ogni essere umano, felicità che va ricercata e perseguita. Per noi cristiani, tutta la vita terrena è un itinerare verso la patria celeste.
L’inizio di questo terzo millennio è fortemente caratterizzato da movimenti migratori che, in termini di origine, transito e destinazione, interessano praticamente ogni parte della terra. Purtroppo, in gran parte dei casi, si tratta di spostamenti forzati, causati da conflitti, disastri naturali, persecuzioni, cambiamenti climatici, violenze, povertà estrema e condizioni di vita indegne: «è impressionante il numero di persone che migra da un continente all’altro, così come di coloro che si spostano all’interno dei propri Paesi e delle proprie aree geografiche. I flussi migratori contemporanei costituiscono il più vasto movimento di persone, se non di popoli, di tutti i tempi»[1].
Davanti a questo complesso scenario, sento di dover esprimere una particolare preoccupazione per la natura forzosa di molti flussi migratori contemporanei, che aumenta le sfide poste alla comunità politica, alla società civile e alla Chiesa e chiede di rispondere ancor più urgentemente a tali sfide in modo coordinato ed efficace.
La nostra comune risposta si potrebbe articolare attorno a quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare.
Accogliere. «C’è un’indole del rifiuto che ci accomuna, che induce a non guardare al prossimo come ad un fratello da accogliere, ma a lasciarlo fuori dal nostro personale orizzonte di vita, a trasformarlo piuttosto in un concorrente, in un suddito da dominare»[2]. Di fronte a questa indole del rifiuto, radicata in ultima analisi nell’egoismo e amplificata da demagogie populistiche, urge un cambio di atteggiamento, per superare l’indifferenza e anteporre ai timori un generoso atteggiamento di accoglienza verso coloro che bussano alle nostre porte. Per quanti fuggono da guerre e persecuzioni terribili, spesso intrappolati nelle spire di organizzazioni criminali senza scrupoli, occorre aprire canali umanitari accessibili e sicuri. Un’accoglienza responsabile e dignitosa di questi nostri fratelli e sorelle comincia dalla loro prima sistemazione in spazi adeguati e decorosi. I grandi assembramenti di richiedenti asilo e rifugiati non hanno dato risultati positivi, generando piuttosto nuove situazioni di vulnerabilità e di disagio. I programmi di accoglienza diffusa, già avviati in diverse località, sembrano invece facilitare l’incontro personale, permettere una migliore qualità dei servizi e offrire maggiori garanzie di successo.
Proteggere. Il mio predecessore, Papa Benedetto, ha evidenziato che l’esperienza migratoria rende spesso le persone più vulnerabili allo sfruttamento, all’abuso e alla violenza[3]. Parliamo di milioni di lavoratori e lavoratrici migranti – e tra questi particolarmente quelli in situazione irregolare –, di profughi e richiedenti asilo, di vittime della tratta. La difesa dei loro diritti inalienabili, la garanzia delle libertà fondamentali e il rispetto della loro dignità sono compiti da cui nessuno si può esimere. Proteggere questi fratelli e sorelle è un imperativo morale da tradurre adottando strumenti giuridici, internazionali e nazionali, chiari e pertinenti; compiendo scelte politiche giuste e lungimiranti; prediligendo processi costruttivi, forse più lenti, ai ritorni di consenso nell’immediato; attuando programmi tempestivi e umanizzanti nella lotta contro i “trafficanti di carne umana” che lucrano sulle sventure altrui; coordinando gli sforzi di tutti gli attori, tra i quali, potete starne certi, ci sarà sempre la Chiesa.
Promuovere. Proteggere non basta, occorre promuovere lo sviluppo umano integrale di migranti, profughi e rifugiati, che «si attua mediante la cura per i beni incommensurabili della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato»[4]. Lo sviluppo, secondo la dottrina sociale della Chiesa[5], è un diritto innegabile di ogni essere umano. Come tale, deve essere garantito assicurandone le condizioni necessarie per l’esercizio, tanto nella sfera individuale quanto in quella sociale, dando a tutti un equo accesso ai beni fondamentali e offrendo possibilità di scelta e di crescita. Anche in questo è necessaria un’azione coordinata e previdente di tutte le forze in gioco: dalla comunità politica alla società civile, dalle organizzazioni internazionali alle istituzioni religiose. La promozione umana dei migranti e delle loro famiglie comincia dalle comunità di origine, là dove deve essere garantito, assieme al diritto di poter emigrare, anche il diritto di non doveremigrare[6], ossia il diritto di trovare in patria condizioni che permettano una dignitosa realizzazione dell’esistenza. A tal fine vanno incoraggiati gli sforzi che portano all’attuazione di programmi di cooperazione internazionale svincolati da interessi di parte e di sviluppo transnazionale in cui i migranti sono coinvolti come protagonisti.
Integrare. L’integrazione, che non è né assimilazione né incorporazione, è un processo bidirezionale, che si fonda essenzialmente sul mutuo riconoscimento della ricchezza culturale dell’altro: non è appiattimento di una cultura sull’altra, e nemmeno isolamento reciproco, con il rischio di nefaste quanto pericolose “ghettizzazioni”. Per quanto concerne chi arriva ed è tenuto a non chiudersi alla cultura e alle tradizioni del Paese ospitante, rispettandone anzitutto le leggi, non va assolutamente trascurata la dimensione familiare del processo di integrazione: per questo mi sento di dover ribadire la necessità, più volte evidenziata dal Magistero[7], di politiche atte a favorire e privilegiare i ricongiungimenti familiari. Per quanto riguarda le popolazioni autoctone, esse vanno aiutate, sensibilizzandole adeguatamente e disponendole positivamente ai processi integrativi, non sempre semplici e immediati, ma sempre essenziali e per l’avvenire imprescindibili. Per questo occorrono anche programmi specifici, che favoriscano l’incontro significativo con l’altro. Per la comunità cristiana, poi, l’integrazione pacifica di persone di varie culture è, in qualche modo, anche un riflesso della sua cattolicità, giacché l’unità che non annulla le diversità etniche e culturali costituisce una dimensione della vita della Chiesa, che nello Spirito della Pentecoste a tutti è aperta e tutti desidera abbracciare[8].
Credo che coniugare questi quattro verbi, in prima persona singolare e in prima persona plurale, rappresenti oggi un dovere, un dovere nei confronti di fratelli e sorelle che, per ragioni diverse, sono forzati a lasciare il proprio luogo di origine: un dovere di giustizia, di civiltà e di solidarietà.
Anzitutto, un dovere di giustizia. Non sono più sostenibili le inaccettabili disuguaglianze economiche, che impediscono di mettere in pratica il principio della destinazione universale dei beni della terra. Siamo tutti chiamati a intraprendere processi di condivisione rispettosa, responsabile e ispirata ai dettami della giustizia distributiva. «È necessario allora trovare i modi affinché tutti possano beneficiare dei frutti della terra, non soltanto per evitare che si allarghi il divario tra chi più ha e chi deve accontentarsi delle briciole, ma anche e soprattutto per un’esigenza di giustizia e di equità e di rispetto verso ogni essere umano»[9]. Non può un gruppetto di individui controllare le risorse di mezzo mondo. Non possono persone e popoli interi aver diritto a raccogliere solo le briciole. E nessuno può sentirsi tranquillo e dispensato dagli imperativi morali che derivano dalla corresponsabilità nella gestione del pianeta, una corresponsabilità più volte ribadita dalla comunità politica internazionale, come pure dal Magistero[10]. Tale corresponsabilità è da interpretare in accordo col principio di sussidiarietà, «che conferisce libertà per lo sviluppo delle capacità presenti a tutti i livelli, ma al tempo stesso esige più responsabilità verso il bene comune da parte di chi detiene più potere»[11]. Fare giustizia significa anche riconciliare la storia con il presente globalizzato, senza perpetuare logiche di sfruttamento di persone e territori, che rispondono al più cinico uso del mercato, per incrementare il benessere di pochi. Come ha affermato Papa Benedetto, il processo di decolonizzazione è stato ritardato «sia a causa di nuove forme di colonialismo e di dipendenza da vecchi e nuovi Paesi egemoni, sia per gravi irresponsabilità interne agli stessi Paesi resisi indipendenti»[12]. A tutto ciò bisogna riparare.
In secondo luogo, vi è un dovere di civiltà. Il nostro impegno a favore dei migranti, dei profughi e dei rifugiati è un’applicazione di quei principi e valori di accoglienza e fraternità che costituiscono un patrimonio comune di umanità e saggezza cui attingere. Tali principi e valori sono stati storicamente codificati nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, in numerose convenzioni e patti internazionali. «Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione»[13]. Oggi più che mai è necessario riaffermare la centralità della persona umana, senza permettere che condizioni contingenti e accessorie, come anche il pur necessario adempimento di requisiti burocratici o amministrativi, ne offuschino l’essenziale dignità. Come ha dichiarato san Giovanni Paolo II, «la condizione di irregolarità legale non consente sconti sulla dignità del migrante, il quale è dotato di diritti inalienabili, che non possono essere violati né ignorati»[14]. Per dovere di civiltà va anche recuperato il valore della fraternità, che si fonda sulla nativa costituzione relazionale dell’essere umano: «la viva consapevolezza di questa relazionalità ci porta a vedere e trattare ogni persona come una vera sorella e un vero fratello; senza di essa diventa impossibile la costruzione di una società giusta, di una pace solida e duratura»[15]. La fraternità è il modo più civile di rapportarsi con la presenza dell’altro, la quale non minaccia, ma interroga, riafferma e arricchisce la nostra identità individuale[16].
C’è, infine, un dovere di solidarietà. Di fronte alle tragedie che “marcano a fuoco” la vita di tanti migranti e rifugiati – guerre, persecuzioni, abusi, violenze, morte –, non possono che sgorgare spontanei sentimenti di empatia e compassione. “Dov’è tuo fratello?” (cfr Gen 4,9): questa domanda, che Dio pone all’uomo fin dalle origini, ci coinvolge, oggi specialmente a riguardo dei fratelli e delle sorelle che migrano: «Non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi»[17]. La solidarietà nasce proprio dalla capacità di comprendere i bisogni del fratello e della sorella in difficoltà e di farsene carico. Su questo, in sostanza, si fonda il valore sacro dell’ospitalità, presente nelle tradizioni religiose. Per noi cristiani, l’ospitalità offerta al forestiero bisognoso di riparo è offerta a Gesù Cristo stesso, immedesimatosi nello straniero: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). È dovere di solidarietà contrastare la cultura dello scarto e nutrire maggiore attenzione per i più deboli, poveri e vulnerabili. Per questo «è necessario un cambio di atteggiamento verso i migranti e rifugiati da parte di tutti; il passaggio da un atteggiamento di difesa e di paura, di disinteresse o di emarginazione – che, alla fine, corrisponde proprio alla “cultura dello scarto” – ad un atteggiamento che abbia alla base la “cultura dell’incontro”, l’unica capace di costruire un mondo più giusto e fraterno, un mondo migliore»[18].
A conclusione di questa riflessione, permettetemi di richiamare l’attenzione su un gruppo particolarmente vulnerabile tra i migranti, profughi e rifugiati che siamo chiamati ad accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Mi riferisco ai bambini e agli adolescenti che sono forzati a vivere lontani dalla loro terra d’origine e separati dagli affetti familiari. A loro ho dedicato il più recente Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, sottolineando come «occorre puntare sulla protezione, sull’integrazione e su soluzioni durature»[19].
Confido che questi due giorni di lavori porteranno frutti abbondanti di buone opere. Vi assicuro la mia preghiera; e voi, per favore, non dimenticate di pregare per me. Grazie.