10 Gennaio 2022 | Address of His Holiness

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI MEMBRI DEL CORPO DIPLOMATICO ACCREDITATO PRESSO LA SANTA SEDE

Aula della Benedizione

[…] Cari Ambasciatori,
lo scorso anno, anche grazie all’allentamento delle restrizioni disposte nel 2020, ho
avuto l’occasione di ricevere molti Capi di Stato e di Governo, nonché diverse
autorità civili e religiose.
Tra i molteplici incontri, vorrei qui menzionare la giornata del 1° luglio scorso,
dedicata alla riflessione e alla preghiera per il Libano. Al caro popolo libanese,
stretto dalla morsa di una crisi economica e politica che fatica a trovare soluzione,
desidero oggi rinnovare la mia vicinanza e la mia preghiera, mentre auspico che le
riforme necessarie e il sostegno della comunità internazionale aiutino il Paese a
rimanere saldo nella propria identità di modello di coesistenza pacifica e di
fratellanza tra le varie religioni presenti.
Nel corso del 2021, ho potuto riprendere anche i viaggi apostolici. Nel mese di
marzo ho avuto la gioia di recarmi in Iraq. La Provvidenza ha voluto che ciò
accadesse, come segno di speranza dopo anni di guerra e terrorismo. Il popolo
iracheno ha diritto a ritrovare la dignità che gli appartiene e di vivere in pace. Le
sue radici religiose e culturali sono millenarie: la Mesopotamia è culla di civiltà; è da
lì che Dio ha chiamato Abramo per iniziare la storia della salvezza.
In settembre poi mi sono recato a Budapest per la conclusione del Congresso
Eucaristico Internazionale; e quindi in Slovacchia. È stata un’opportunità di incontro
con i fedeli cattolici e di altre confessioni cristiane, come pure di dialogo con gli
ebrei. Parimenti, il viaggio a Cipro e in Grecia, di cui è vivo in me il ricordo, mi ha
consentito di approfondire i legami con i fratelli ortodossi e di sperimentare la
fraternità tra le varie confessioni cristiane.
Una parte toccante di questo viaggio ha avuto luogo nell’isola di Lesbo, dove ho
potuto constatare la generosità di quanti prestano la propria opera per fornire
accoglienza e aiuto ai migranti, ma soprattutto ho visto i volti dei tanti bambini e
adulti ospiti dei centri di accoglienza. Nei loro occhi c’è la fatica del viaggio, la paura
di un futuro incerto, il dolore per i propri cari rimasti indietro e la nostalgia della
patria che sono stati costretti ad abbandonare. Davanti a questi volti non possiamo
rimanere indifferenti e non ci si può trincerare dietro muri e fili spinati con il
pretesto di difendere la sicurezza o uno stile di vita. Questo non si può.
Ringrazio perciò quanti, individui e governi, si adoperano per garantire accoglienza
e protezione ai migranti, facendosi carico anche della loro promozione umana e
della loro integrazione nei Paesi che li hanno accolti. Sono consapevole delle
difficoltà che alcuni Stati incontrano di fronte a flussi ingenti di persone. A nessuno
può essere chiesto quanto è impossibilitato a fare, ma vi è una netta differenza fra
accogliere, seppure limitatamente, e respingere totalmente.
Occorre vincere l’indifferenza e rigettare il pensiero che i migranti siano un
problema di altri. L’esito di tale approccio lo si vede nella disumanizzazione stessa
dei migranti concentrati in hotspot, dove finiscono per essere facile preda della
criminalità e dei trafficanti di esseri umani, o per tentare disperati tentativi di fuga
che a volte si concludono con la morte. Purtroppo, occorre anche rilevare che i
migranti stessi sono spesso trasformati in arma di ricatto politico, in una sorta di
“merce di contrattazione” che priva le persone della dignità.
In questa sede, desidero rinnovare la mia gratitudine alle Autorità italiane, grazie
alle quali alcune persone sono potute venire con me a Roma da Cipro e dalla
Grecia. Si è trattato di un gesto semplice ma significativo. Al popolo italiano, che ha
sofferto molto all’inizio della pandemia, ma che ha anche mostrato segni
incoraggianti di ripresa, rivolgo il mio augurio, perché mantenga sempre quello
spirito di apertura generosa e solidale che lo contraddistingue.
In pari tempo, reputo di fondamentale importanza che l’Unione Europea trovi la sua
coesione interna nella gestione delle migrazioni, come l’ha saputa trovare per far
fronte alle conseguenze della pandemia. Occorre, infatti, dare vita a un sistema
coerente e comprensivo di gestione delle politiche migratorie e di asilo, in modo che
siano condivise le responsabilità nel ricevere i migranti, rivedere le domande di
asilo, ridistribuire e integrare quanti possono essere accolti. La capacità di
negoziare e trovare soluzione condivise è uno dei punti di forza dell’Unione Europea
e costituisce un valido modello per affrontare in prospettiva le sfide globali che ci
attendono.
Tuttavia, le migrazioni non riguardano solo l’Europa, anche se essa è
particolarmente interessata da flussi provenienti sia dall’Africa sia dall’Asia. In
questi anni abbiamo assistito, tra l’altro, all’esodo dei profughi siriani, a cui si sono
aggiunti nei mesi scorsi quanti sono fuggiti dall’Afghanistan. Non dobbiamo neppure
dimenticare gli esodi massicci che interessano il continente americano e che
premono sul confine fra Messico e Stati Uniti d’America. Molti di quei migranti sono
haitiani in fuga dalle tragedie che hanno colpito il loro Paese in questi anni.
La questione migratoria, come anche la pandemia e il cambiamento climatico,
mostrano chiaramente che nessuno si può salvare da sé, ossia che le grandi sfide
del nostro tempo sono tutte globali. Desta perciò preoccupazione constatare che di
fronte a una maggiore interconnessione dei problemi, vada crescendo una più
ampia frammentazione delle soluzioni. Non di rado si riscontra una mancanza di
volontà nel voler aprire finestre di dialogo e spiragli di fraternità, e questo finisce
per alimentare ulteriori tensioni e divisioni, nonché un generale senso di incertezza
e instabilità. Occorre, invece, recuperare il senso della nostra comune identità di
unica famiglia umana. L’alternativa è solo un crescente isolamento, segnato da
preclusioni e chiusure reciproche che di fatto mettono ulteriormente in pericolo il
multilateralismo, ovvero quello stile diplomatico che ha caratterizzato i rapporti
internazionali dalla fine della seconda guerra mondiale.
La diplomazia multilaterale attraversa da tempo una crisi di fiducia, dovuta a una
ridotta credibilità dei sistemi sociali, governativi e intergovernativi. Importanti
risoluzioni, dichiarazioni e decisioni sono spesso prese senza un vero negoziato nel
quale tutti i Paesi abbiano voce in capitolo. Tale squilibrio, divenuto oggi
drammaticamente evidente, genera disaffezione verso gli organismi internazionali
da parte di molti Stati e indebolisce nel suo complesso il sistema multilaterale,
rendendolo sempre meno efficace nell’affrontare le sfide globali.
Il deficit di efficacia di molte organizzazioni internazionali è anche dovuto alla
diversa visione, tra i vari membri, degli scopi che esse si dovrebbero prefiggere.
Non di rado il baricentro d’interesse si è spostato su tematiche per loro natura
divisive e non strettamente attinenti allo scopo dell’organizzazione, con l’esito di
agende sempre più dettate da un pensiero che rinnega i fondamenti naturali
dell’umanità e le radici culturali che costituiscono l’identità di molti popoli. Come ho
avuto modo di affermare in altre occasioni, ritengo che si tratti di una forma di
colonizzazione ideologica, che non lascia spazio alla libertà di espressione e che
oggi assume sempre più la forma di quella cancel culture, che invade tanti ambiti e
istituzioni pubbliche. In nome della protezione delle diversità, si finisce per
cancellare il senso di ogni identità, con il rischio di far tacere le posizioni che
difendono un’idea rispettosa ed equilibrata delle varie sensibilità. Si va elaborando
un pensiero unico – pericoloso – costretto a rinnegare la storia, o peggio ancora a
riscriverla in base a categorie contemporanee, mentre ogni situazione storica va
interpretata secondo l’ermeneutica dell’epoca, non l’ermeneutica di oggi.
La diplomazia multilaterale è chiamata perciò ad essere veramente inclusiva, non
cancellando ma valorizzando le diversità e le sensibilità storiche che
contraddistinguono i vari popoli. In tal modo essa riacquisterà credibilità ed efficacia
per affrontare le prossime sfide, che richiedono all’umanità di ritrovarsi insieme
come una grande famiglia, la quale, pur partendo da punti di vista differenti,
dev’essere in grado di trovare soluzioni comuni per il bene di tutti. Ciò esige fiducia
reciproca e disponibilità a dialogare, ovvero ad «ascoltarsi, confrontarsi, accordarsi
e camminare insieme» (Messaggio per la LV Giornata Mondiale della Pace, 8
dicembre 2021). Peraltro, «il dialogo è la via più adatta per arrivare a riconoscere
ciò che dev’essere sempre affermato e rispettato, e che va oltre il consenso
occasionale» (Fratelli tutti, 3 ottobre 2020, 211). Non bisogna mai dimenticare che
«ci sono alcuni valori permanenti» (Ibid). Non sempre è facile riconoscerli, ma
accettarli «conferisce solidità e stabilità a un’etica sociale. Anche quando li abbiamo
riconosciuti e assunti grazie al dialogo e al consenso, vediamo che tali valori di base
vanno al di là di ogni consenso» (Ibid). Desidero richiamare specialmente il diritto
alla vita, dal concepimento sino alla fine naturale, e il diritto alla libertà religiosa.
In questa prospettiva, negli ultimi anni è cresciuta sempre più la consapevolezza
collettiva in merito all’urgenza di affrontare la cura della nostra casa comune, che
sta soffrendo a causa di un continuo e indiscriminato sfruttamento delle risorse. Al
riguardo, penso specialmente alle Filippine, colpite nelle scorse settimane da un
devastante tifone, come pure ad altre nazioni del Pacifico, vulnerabili dagli effetti
negativi del cambiamento climatico, che mettono a rischio la vita degli abitanti, la
maggior parte dei quali dipende da agricoltura, pesca e risorse naturali.
Proprio tale constatazione deve spingere la comunità internazionale nella sua
globalità a trovare soluzioni comuni e a metterle in pratica. Nessuno può esimersi
da tale sforzo, poiché siamo tutti interessati e coinvolti in egual misura. Nella
recente COP26 a Glasgow sono stati compiuti alcuni passi che vanno nella giusta
direzione, anche se piuttosto deboli rispetto alla consistenza del problema da
affrontare. La strada per il conseguimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi è
complessa e sembra essere ancora lunga, mentre il tempo a disposizione è sempre
meno. Vi è ancora molto da fare e dunque il 2022 sarà un altro anno fondamentale
per verificare quanto e come ciò che si è deciso a Glasgow possa e debba essere
ulteriormente rafforzato, in vista della COP27, prevista in Egitto nel novembre
prossimo.