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PAPA FRANCESCO UDIENZA GENERALE

[…] Quante volte noi, quando vediamo tanta gente nella strada – gente bisognosa, ammalata, che non ha da mangiare – sentiamo fastidio. Quante volte, quando ci troviamo davanti a tanti profughi e rifugiati, sentiamo fastidio. È una tentazione che tutti noi abbiamo. Tutti, anch’io! È per questo che la Parola di Dio ci ammonisce ricordandoci che l’indifferenza e l’ostilità rendono ciechi e sordi, impediscono di vedere i fratelli e non permettono di riconoscere in essi il Signore. Indifferenza e ostilità. E a volte questa indifferenza e ostilità diventano anche aggressione e insulto: “ma cacciateli via tutti questi!”, “metteteli in un’altra parte!”. Quest’aggressione è quello che faceva la gente quando il cieco gridava: “ma tu vai via, dai, non parlare, non gridare”. […]

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Discorso del Santo Padre alla Sessione annuale della Giunta Esecutiva del Programma Alimentare Mondiale (PAM)

[…] Tale tendenza – o tentazione – ci chiede di fare un passo ulteriore e rivela a sua volta il ruolo fondamentale che le istituzioni come la vostra hanno per lo scenario globale. Oggi non possiamo considerarci soddisfatti solo per il fatto di conoscere la situazione di molti nostri fratelli. Le statistiche non saziano. Non basta elaborare lunghe riflessioni o sprofondarci in interminabili discussioni su di esse, ripetendo continuamente argomenti già conosciuti da tutti. È necessario “de-naturalizzare” la miseria e smettere di considerarla come un dato della realtà tra i tanti. Perché? Perché la miseria ha un volto. Ha il volto di un bambino, ha il volto di una famiglia, ha il volto di giovani e anziani. Ha il volto della mancanza di opportunità e di lavoro di tante persone, ha il volto delle migrazioni forzate, delle case abbandonate o distrutte. Non possiamo “naturalizzare” la fame di tante persone; non ci è lecito dire che la loro situazione è frutto di un destino cieco di fronte al quale non possiamo fare nulla. E quando la miseria cessa di avere un volto, possiamo cadere nella tentazione di iniziare a parlare e a discutere su “la fame”, “l’alimentazione”, “la violenza”, lasciando da parte il soggetto concreto, reale, che oggi ancora bussa alle nostre porte. Quando mancano i volti e le storie, le vite cominciano a diventare cifre e così un po’ alla volta corriamo il rischio di burocratizzare il dolore degli altri. Le burocrazie si occupano di pratiche; la compassione – non la pena ma la compassione, il patire-con – invece, si mette in gioco per le persone.[…]

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INCONTRO DEL SANTO PADRE FRANCESCO CON I PARTECIPANTI AL CONVEGNO PER PERSONE DISABILI, PROMOSSO DALLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Discorso preparato dal Santo Padre

[…] Anche in questo campo è decisivo il coinvolgimento delle famiglie, che chiedono di essere non solo accolte, ma stimolate e incoraggiate. Le nostre comunità cristiane siano “case” in cui ogni sofferenza trovi com-passione, in cui ogni famiglia con il suo carico di dolore e fatica possa sentirsi capita e rispettata nella sua dignità. Come ho osservato nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, «l’attenzione dedicata tanto ai migranti quanto alle persone con disabilità è un segno dello Spirito. Infatti entrambe le situazioni sono paradigmatiche: mettono specialmente in gioco il modo in cui si vive oggi la logica dell’accoglienza misericordiosa e dell’integrazione delle persone fragili» (n. 47). […]

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LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER IL BICENTENARIO DELL’INDIPENDENZA DE LA REPUBBLICA ARGENTINA

[…] in modo particolare voglio stare accanto a quanti soffrono: i malati, quanti vivono nell’indigenza, i detenuti, quanti si sentono soli, quelli che non hanno lavoro e sperimentano ogni sorta di bisogno, quanti sono o sono stati vittime della tratta, del commercio umano e dello sfruttamento degli esseri umani, i minori vittime di abusi e tanti giovani che subiscono il flagello della droga. Tutti loro portano molto spesso il duro peso di situazioni limite. Sono i figli più feriti della Patria. […]

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INTERVENTO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL VERTICE DI GIUDICI E MAGISTRATI CONTRO IL TRAFFICO DELLE PERSONE UMANE E IL CRIMINE ORGANIZZATO [VATICANO, 3-4 GIUGNO 2016]

Buona sera!
Vi saluto cordialmente e rinnovo l’espressione della mia stima per la vostra collaborazione nel contribuire al progresso umano e sociale, finalità della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.
Se mi rallegro di tale contributo e mi compiaccio con voi, è anche in considerazione del nobile servizio che potete offrire all’umanità, sia approfondendo la conoscenza di questo fenomeno così attuale, cioè l’indifferenza nel mondo globalizzato e le sue forme estreme, sia nelle soluzioni per affrontare tale sfida, adoperandovi per migliorare le condizioni di vita dei più bisognosi tra i nostri fratelli e sorelle. Seguendo Cristo, la Chiesa è chiamata a impegnarsi. Ossia, non vale l’adagio illuministico secondo il quale la Chiesa non deve mettersi in politica; la Chiesa deve mettersi nella “grande” politica perché – cito Paolo VI – “la politica è una delle forme più alte dell’amore, della carità”. E La Chiesa è anche chiamata ad essere fedele alle persone, ancor più se si considerano le situazioni in cui si toccano le piaghe e le sofferenze drammatiche, e nelle quali sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze sociali e la fede; situazioni nelle quali la vostra testimonianza di persone e umanisti, unita alla vostra specifica competenza sociale, è particolarmente apprezzata.
Nel corso di questi ultimi anni non sono mancate importanti attività della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali sotto il forte impulso della sua Presidente, del Cancelliere e di alcuni collaboratori esterni di rinomato prestigio, che ringrazio di cuore. Attività in difesa della dignità e libertà degli uomini e delle donne di oggi e, in particolare, volte a sradicare la tratta e il traffico di persone e le nuove forme di schiavitù come il lavoro forzato, la prostituzione, il traffico di organi, il commercio della droga, la criminalità organizzata. Come ha detto il mio predecessore Benedetto XVI, e come ho affermato io stesso in diverse occasioni, questi sono veri e propri crimini di lesa umanità che devono essere riconosciuti tali da tutte le autorità religiose, politiche e sociali, e sanciti dalle leggi nazionali e internazionali.
L’incontro con i capi religiosi delle principali religioni che oggi influiscono sul mondo globale, il 2 dicembre 2014, come pure il vertice degli amministratori e dei sindaci delle città più importanti del mondo, il 21 luglio 2015, hanno manifestato la volontà di questa Istituzione di perseguire l’eliminazione delle nuove forme di schiavitù. Conservo un particolare ricordo di questi due incontri, come anche dei significativi seminari dei giovani, tutti promossi dall’Accademia. Qualcuno potrebbe pensare che l’Accademia debba muoversi piuttosto in un ambito di scienze pure, di considerazioni più teoriche. Questo risponde certamente ad una concezione illuministica di quello che deve essere un’Accademia. Ma un’Accademia deve avere radici e radici nel concreto, perché altrimenti corre il rischio di sviluppare una riflessione liquida, che si vaporizza e non porta a nulla. Questo divorzio tra l’idea e la realtà è chiaramente un fenomeno culturale passato, proprio piuttosto dell’Illuminismo, ma che ha ancora la sua incidenza.
Ora, ispirata dai medesimi obiettivi, l’Accademia ha convocato voi, giudici e pubblici ministeri provenienti da tutto il mondo, con esperienza e saggezza pratica nello sradicamento della tratta, del traffico di persone e della criminalità organizzata. Siete venuti in rappresentanza dei vostri colleghi con il lodevole intento di progredire nella piena consapevolezza di tali flagelli e, conseguentemente, di manifestare la vostra insostituibile missione di fronte alle nuove sfide poste dalla globalizzazione dell’indifferenza, rispondendo alla crescente richiesta della società e nel rispetto delle leggi nazionali e internazionali. Farsi carico della propria vocazione significa anche sentirsi e proclamarsi liberi. Giudici e pubblici ministeri liberi: da che cosa? Dalle pressioni dei governi; liberi dalle istituzioni private e, naturalmente, liberi dalle “strutture di peccato” di cui parlava il mio predecessore san Giovanni Paolo II, in particolare liberi da quella “struttura di peccato” che è la criminalità organizzata. Io so che voi siete sottoposti a pressioni, sottoposti a minacce in tutto questo; e so che oggi essere giudici, essere pubblici ministeri significa rischiare la pelle, e questo merita un riconoscimento al coraggio di quelli che vogliono continuare ad essere liberi nell’esercizio delle loro funzione giuridica. Senza questa libertà, il potere giudiziario di una nazione si corrompe e genera corruzione. Tutti conosciamo la caricatura della giustizia, in questi casi: la giustizia con gli occhi bendati: le cade la benda e le tappa la bocca.
Fortunatamente, per la realizzazione di questo complesso e delicato progetto umano e cristiano: liberare l’umanità dalle nuove schiavitù e dal crimine organizzato, progetto che l’Accademia persegue rispondendo alla mia richiesta, si può anche contare sull’importante e decisiva sinergia delle Nazioni Unite. C’è una maggiore coscienza di questo, una forte coscienza. Mi congratulo con i rappresentanti dei 193 Paesi membri dell’ONU, che hanno approvato all’unanimità i nuovi obiettivi dello sviluppo sostenibile e integrale, e in particolare la meta 8.7. Essa recita così: “Adottare misure immediate ed efficaci per sradicare il lavoro forzato, porre fine alle forme moderne di schiavitù e alla tratta di esseri umani, e assicurare il divieto e l’eliminazione delle peggiori forme di lavoro infantile, inclusi il reclutamento e l’utilizzo di bambini soldato, e, al più tardi entro il 2025, porre fine al lavoro infantile in tutte le sue forme”. Fin qui la Risoluzione. Si può ben dire che adesso è un imperativo morale per tutti Paesi membri dell’ONU attuare tali obiettivi e tale meta.
Perciò è necessario generare un moto trasversale e ondulare, una “buona onda”, che abbracci tutta la società dall’alto in basso e viceversa, dalla periferia al centro e viceversa, dai capi fino alle comunità, e dai popoli e dall’opinione pubblica fino ai più alti livelli dirigenziali. La realizzazione di questo esige che, come hanno già fatto le autorità religiose e sociali e i sindaci, così anche i giudici prendano piena coscienza di tale sfida, sentano l’importanza della propria responsabilità davanti alla società, condividano le proprie esperienze e buone pratiche e agiscano insieme – è importante, in comunione, in comunità, che agiscano insieme – per aprire spazi e nuove vie di giustizia a vantaggio della promozione della dignità umana, della libertà, della responsabilità, della felicità e, in definitiva, della pace. Senza cedere al gusto della simmetria, potremmo dire che il giudice sta alla giustizia come il religioso e il filosofo alla morale, e come il governante o ogni altra figura che impersona il potere sovrano sta alla politica. Ma solamente nella figura del giudice si riconosce la giustizia come il primo attributo della società. E questo bisogna rivalutarlo, perché la tendenza sempre maggiore è quella di “liquefare” la figura del giudice attraverso le pressioni e quanto ho menzionato prima. E tuttavia è la prima caratteristica della società. Viene già dalla stessa tradizione bilica, non è così? Mosè ha bisogno di istituire 70 giudici perché lo aiutino, che giudichino i casi: il giudice, a cui si ricorre. E anche in questo processo di liquefazione, la realtà decisiva, la realtà concreta riguarda i popoli. Ossia, i popoli hanno un’entità che dà loro consistenza, che li fa crescere, avere i propri progetti, farsi carico dei propri fallimenti, dei propri ideali; però stanno anche soffrendo un processo di “liquefazione” e tutto ciò che è la consistenza concreta di un popolo tende a trasformarsi nella mera identità nominale di un cittadino, e un popolo non è la stessa cosa di un gruppo di cittadini. Il giudice è la prima caratteristica di una società di popolo.
L’Accademia, convocando i giudici, non aspira se non a collaborare secondo la misura delle sue possibilità in sintonia con il citato obiettivo dell’ONU. Vanno qui ringraziate quelle nazioni che, tramite gli Ambasciatori presso la Santa Sede, non sono rimaste indifferenti o arbitrariamente critiche, ma al contrario hanno attivamente collaborato con l’Accademia per la realizzazione di questo vertice. Gli Ambasciatori che non hanno sentito questa necessità, o che se ne sono lavati le mani, o hanno pensato che non era poi così necessario, li aspettiamo per la prossima riunione.
Chiedo ai giudici di realizzare la propria vocazione e la propria missione essenziale: stabilire la giustizia, senza la quale non vi è ordine, né sviluppo sostenibile e integrale, né tantomeno pace sociale. Senza dubbio, uno dei più grandi mali sociali del mondo odierno è la corruzione a tutti i livelli, la quale indebolisce qualunque governo, indebolisce la democrazia partecipativa e l’attività giudiziaria. A voi, giudici, spetta il dovere di fare giustizia, e vi chiedo una speciale attenzione per fare giustizia nell’ambito della tratta e del traffico di persone e, di fronte a ciò e al crimine organizzato, vi chiedo di guardarsi dal cadere nella ragnatela delle corruzioni.
Quando diciamo “fare giustizia”, come voi ben sapete, non intendiamo che si debba cercare il castigo per sé stesso, ma che, quando occorrono le pene, queste siano date per la rieducazione dei responsabili, in modo tale che si possa aprire loro una speranza di reinserimento nella società. Ossia, non c’è pena valida senza speranza. Una pena chiusa in sé stessa, che non dia spazio alla speranza, è una tortura, non è una pena. Su questo mi baso anche per affermare seriamente la posizione della Chiesa contro la pena di morte. Certo, mi diceva un teologo che nella concezione della teologia medievale e postmedievale, la pena di morte era legata a una speranza: “li affidiamo a Dio”. Ma i tempi sono cambiati e questo non è più possibile. Lasciamo che sia Dio a scegliere il momento… La speranza del reinserimento nella società: “Neppure l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante” (Giovanni Paolo II, Enc. Evangelium vitae, 9). E se questa delicata congiunzione tra giustizia e misericordia, che in fondo è preparare per un reinserimento, vale per i responsabili dei crimini di lesa umanità come anche per ogni essere umano, a fortiori vale per le vittime che, come indica il loro stesso nome, sono più passive che attive nell’esercizio della loro libertà, essendo cadute nella trappola dei nuovi cacciatori di schiavi. Vittime molte volte tradite fin nel più intimo e più sacro della loro persona, cioè nell’amore che esse aspirano a dare e a ricevere, e che la loro famiglia deve loro o che viene loro promesso da pretendenti o mariti, che invece finiscono per venderle sul mercato del lavoro forzato, della prostituzione o della vendita di organi.
I giudici sono chiamati oggi più che mai a porre grande attenzione alle necessità delle vittime. Sono le prime che devono essere riabilitate e reintegrate nella società, e per loro si deve perseguire una lotta senza quartiere ai trafficanti e ai carnefici. Non vale il vecchio adagio: “Sono cose che esistono da che mondo è mondo”. Le vittime possono cambiare e di fatto sappiamo che cambiano vita con l’aiuto di buoni giudici, delle persone che le assistono e di tutta la società. Sappiamo che non poche di queste persone sono avvocati, politici o politiche, scrittori brillanti o hanno qualche ufficio affermato per servire in modo efficace il bene comune. Sappiamo quanto è importante che ogni vittima trovi il coraggio di parlare del suo essere vittima come di un passato che ha superato coraggiosamente essendo ora un sopravvissuto, o, meglio, una persona con qualità di vita, con dignità recuperata e libertà assunta. E su questo tema del reinserimento, vorrei comunicare un’esperienza vissuta. A me piace, quando vado in una città, visitare il carcere. Ne ho visitati diversi… E’ interessante – senza voler offendere nessuno – è un’impressione generale: ho visto che le carceri in cui il direttore è una donna vanno meglio di quelle in cui il direttore è un uomo. Questo non è femminismo! E’ interessante. La donna ha, riguardo al reinserimento, un “fiuto” speciale, una sensibilità speciale che, senza mancare di energia, ricolloca queste persone, le riposiziona. Alcuni attribuiscono questo fatto alla radice della maternità… Ma è interessante, lo lascio come esperienza personale; vale la pensa ripensarlo. E qui in Italia c’è un’alta percentuale di carceri dirette da donne, molte donne giovani, rispettate e che hanno un buon modo di trattare con i detenuti. Un’altra esperienza che ho è che nelle udienze del mercoledì non è raro che venga un gruppo di detenuti – di questo o quel carcere –, accompagnati dal direttore o dalla direttrice, sono lì… Sono tutti gesti di reinserimento.
Voi siete chiamati a dare speranza nel fare la giustizia. Dalla vedova che chiede giustizia insistentemente, di cui parla il Vangelo (Lc 18,1-8), fino alle vittime di oggi, tutte alimentano un’aspirazione alla giustizia, come speranza che l’ingiustizia che attraversa questo mondo non sia l’ultima realtà, non abbia l’ultima parola.
A volte può essere di giovamento applicare, secondo modalità proprie di ogni paese, di ogni continente e di ogni tradizione giuridica, la prassi italiana di recuperare i beni male acquistati dai trafficanti e dai criminali per offrire alla società e, in concreto, per il reinserimento delle vittime. La riabilitazione delle vittime e il loro reinserimento nella società, sempre realmente possibile, è il bene maggiore che possiamo fare a loro stesse, alla comunità e alla pace sociale. Certo, il lavoro è duro; non finisce con la sentenza, finisce dopo, facendo in modo che ci sia un accompagnamento, una crescita, un reinserimento, una riabilitazione della vittima e del carnefice.
Se c’è una cosa che attraversa le beatitudini evangeliche e il protocollo del giudizio divino con cui tutti saremo giudicati di Matteo 25, è il tema della giustizia: “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, beati quelli che soffrono per la giustizia, beati quelli che piangono, beati i miti, beati gli operatori di pace”; “Benedetti dal Padre mio quelli che trattano il più bisognoso e il più piccolo dei miei fratelli come me stesso”. Essi o esse – e qui è il caso di riferirci in particolare ai giudici – avranno la ricompensa più grande: possederanno la terra, saranno chiamati e saranno figli di Dio, vedranno Dio, e gioiranno eternamente con il Padre celeste.
In questo spirito, mi permetto di chiedere a giudici, pubblici ministeri e membri dell’Accademia di continuare la loro opera e realizzare, secondo le proprie possibilità e con l’aiuto della grazia, le valide e benemerite iniziative al servizio delle persone e del bene comune. Tante grazie!

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PAPA FRANCESCO UDIENZA GENERALE

APPELLI

[…] Oggi ricorre la Giornata internazionale per i bambini scomparsi. È un dovere di tutti proteggere i bambini, soprattutto quelli esposti ad elevato rischio di sfruttamento, tratta e condotte devianti. Auspico che le Autorità civili e religiose possano scuotere e sensibilizzare le coscienze, per evitare l’indifferenza di fronte al disagio di bambini soli, sfruttati e allontanati dalle loro famiglie e dal loro contesto sociale, bambini che non possono crescere serenamente e guardare con speranza al futuro. Invito tutti alla preghiera affinché ciascuno di essi sia restituito all’affetto dei propri cari. […]

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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL SEGRETARIO GENERALE DELL’O.N.U. IN OCCASIONE DEL 1° “WORLD HUMANITARIAN SUMMIT”

[…] Non possiamo negare che troppi interessi impediscono oggi le soluzioni dei conflitti, e che strategie militari, economiche e geo-politiche spostano persone e popoli e impongono il dio denaro, il dio potere. Nello stesso tempo, gli sforzi umanitari vengono frequentemente condizionati da imposizioni commerciali e ideologiche.

Per questo, ciò che occorre oggi è un impegno rinnovato a proteggere ogni persona nella sua vita quotidiana e a salvaguardare la sua dignità e i suoi diritti umani, la sua sicurezza e i suoi bisogni integrali. Contemporaneamente, è necessario preservare la libertà e l’identità culturale e sociale dei popoli; senza che ciò porti a chiusure, ma, anzi, favorisca la cooperazione, il dialogo e, specialmente, la pace.

“Non lasciare nessuno indietro” e “Fare del proprio meglio” ci chiedono di non rassegnarci, di assumerci la responsabilità delle decisioni e delle azioni di fronte alle stesse vittime. Farlo prima personalmente, poi insieme, coordinando le forze e l’azione nel reciproco rispetto delle diverse abilità e settori di competenza, non discriminando ma accogliendo. In altre parole: non deve esserci nessuna famiglia senza casa, nessun rifugiato senza accoglienza, nessuna persona senza dignità, nessun ferito senza cure, nessun bambino senza infanzia, nessun giovane, ragazzo o ragazza, senza un futuro, nessun anziano senza una decorosa vecchiaia.

Possa questa essere anche l’occasione per riconoscere il lavoro di chi serve il prossimo e contribuisce ad alleviare le sofferenze delle vittime di guerre e calamità, dei profughi e dei rifugiati, e si prende cura della società, specialmente attraverso scelte coraggiose di pace, di rispetto, di risanamento e di perdono. In questo modo si salvano le vite delle persone. […]

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AGLI AMBASCIATORI DI SEYCHELLES, THAILANDIA, ESTONIA, MALAWI, ZAMBIA, NAMIBIA IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DELLE LETTERE CREDENZIALI

[…] La vostra presenza qui oggi è un forte richiamo al fatto che, nonostante le nostre nazionalità, culture e confessioni religiose possano essere diverse, siamo uniti dalla comune umanità e dalla condivisa missione di prenderci cura della società e del creato. Questo servizio ha assunto una particolare urgenza, dal momento che tante persone nel mondo stanno soffrendo conflitti e guerre, migrazioni e trasferimenti forzati, e incertezze causate dalle difficoltà economiche. Questi problemi richiedono non solo che riflettiamo su di essi e ne discutiamo, ma che esprimiamo anche segni concreti di solidarietà con i nostri fratelli e sorelle in grave necessità. Perché questo servizio di solidarietà sia efficace, i nostri sforzi devono essere diretti a perseguire la pace, in cui ogni diritto naturale individuale e ogni sviluppo umano integrale possa essere esercitato e garantito. Tale compito richiede che lavoriamo insieme in modo efficiente e coordinato, incoraggiando i membri delle nostre comunità a diventare loro stessi artigiani di pace, promotori di giustizia sociale e difensori del vero rispetto per la nostra casa comune. Ciò diventa sempre più difficile, perché il nostro mondo appare sempre più frammentato e polarizzato. Molte persone tendono ad isolarsi di fronte alla durezza della realtà. Hanno paura del terrorismo e che il crescente afflusso di migranti cambi radicalmente la loro cultura, la loro stabilità economica e il loro stile di vita. Questi sono timori che comprendiamo e che non possiamo tralasciare con leggerezza, tuttavia devono essere affrontati con saggezza e compassione, così che i diritti e i bisogni di tutti vengano rispettati e sostenuti. Per quanti sono afflitti dalla tragedia della violenza e della migrazione forzata, dobbiamo essere risoluti nel far conoscere al mondo la loro condizione critica, così che, attraverso la nostra, possa essere udita la loro voce, troppo debole e incapace di far sentire il suo grido. La via della diplomazia ci aiuta ad amplificare e trasmettere questo grido attraverso la ricerca di soluzioni alle molteplici cause che stanno alla base degli attuali conflitti. Ciò si attua specialmente negli sforzi di privare delle armi quanti usano violenza, come pure di mettere fine alla piaga del traffico umano e del commercio di droga che spesso accompagna questo male. Mentre le nostre iniziative in nome della pace dovrebbero aiutare le popolazioni a rimanere in patria, il momento presente ci chiama ad assistere i migranti e quanti si prendono cura di loro. Non dobbiamo permettere che malintesi e paure indeboliscano la nostra determinazione. Piuttosto, siamo chiamati a costruire una cultura del dialogo «che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato» (Discorso in occasione del conferimento del Premio Carlo Magno, 6 maggio 2016). In tal modo promuoveremo un’integrazione che rispetti l’identità dei migranti e preservi la cultura della comunità che li accoglie, e arricchisca al tempo stesso entrambi. Questo è essenziale. Se incomprensione e paura prevalgono, qualcosa di noi stessi è danneggiato, le nostre culture, la storia e le tradizioni vengono indebolite, e la pace stessa è compromessa. Quando d’altra parte noi favoriamo il dialogo e la solidarietà, a livello sia individuale che collettivo, è allora che sperimentiamo il meglio dell’umanità e assicuriamo una pace duratura per tutti, secondo il disegno del Creatore.[…]

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI PARTECIPANTI ALLA CONFERENZA INTERNAZIONALE DELLA FONDAZIONE CENTESIMUS ANNUS PRO PONTIFICE

Cari amici,

vi rivolgo il mio caloroso benvenuto e ringrazio il Presidente per le sue cortesi parole. In questi giorni di riflessione e di dialogo, avete preso in considerazione il contributo della comunità degli affari alla lotta contro la povertà, con particolare riferimento all’attuale crisi dei profughi. Sono grato per la prontezza con la quale portate la vostra competenza ed esperienza nella discussione su queste delicate questioni umanitarie e sugli obblighi morali che esse comportano.

La crisi dei profughi, le cui proporzioni stanno crescendo ogni giorno, è una di quelle a cui mi sento particolarmente vicino. Nella mia recente visita a Lesbo, sono stato testimone di strazianti esperienze di sofferenza umana, specialmente di famiglie e bambini. Era mia intenzione, insieme ai miei fratelli Ortodossi il Patriarca Bartolomeo e l’Arcivescovo Geronimo, di offrire al mondo una maggiore consapevolezza di queste «scene di tragico e davvero disperato bisogno», e di «darvi risposta in un modo degno della nostra comune umanità» (Visita al Campo Rifugiati di Moria, 16 aprile 2016). Al di là dell’immediato e pratico aspetto del fornire aiuto materiale a questi nostri fratelli e sorelle, la comunità internazionale è chiamata a individuare risposte politiche, sociali ed economiche di lungo periodo a problematiche che superano i confini nazionali e continentali e coinvolgono l’intera famiglia umana. […]

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO ALL’UNIONE INTERNAZIONALE SUPERIORE GENERALI (UISG)

[…] E’ vero che le donne sono escluse dai processi decisionali nella Chiesa: escluse no, ma è molto debole l’inserimento delle donne lì, nei processi decisionali. Dobbiamo andare avanti. Per esempio – davvero io non vedo difficoltà – credo che nel Pontificio Consiglio Giustizia e Pace che porta avanti la segreteria sia una donna, una religiosa. E’ stata proposta un’altra e io l’ho nominata, ma lei ha preferito di no, perché doveva andare da un’altra parte a fare altri lavori della sua Congregazione. Si deve andare oltre, perché per tanti aspetti dei processi decisionali non è necessaria l’ordinazione. Non è necessaria. Nella riforma della Cost. ap. Pastor Bonus, a proposito dei Dicasteri, quando non c’è la giurisdizione che viene dall’ordinazione – cioè la giurisdizionale pastorale – non si vede scritto che può essere una donna, non so se capo dicastero, ma… Per esempio per i migranti: al dicastero per i migranti una donna potrebbe andare. E quando c’è necessità – adesso che i migranti entrano in un dicastero – della giurisdizione, sarà il Prefetto a dare questo permesso. Ma nell’ordinario può andare, nell’esecuzione del processo decisionale. Per me è molto importante l’elaborazione delle decisioni: non soltanto l’esecuzione, ma anche l’elaborazione, e cioè che le donne, sia consacrate sia laiche, entrino nella riflessione del processo e nella discussione. Perché la donna guarda la vita con occhi propri e noi uomini non possiamo guardarla così. E’ il modo di vedere un problema, di vedere qualsiasi cosa, in una donna è diverso rispetto a quello che è per l’uomo. Devono essere complementari, e nelle consultazioni è importante che ci siano le donne. […]

[Ora il Papa risponde a una parte della domanda che non è stata letta ma era scritta]

Le richieste di soldi nelle nostre Chiese locali. Il problema dei soldi è un problema molto importante, sia nella vita consacrata, sia nella Chiesa diocesana. Non dobbiamo mai dimenticare che il diavolo entra “per le tasche”: sia per le tasche del vescovo, sia per le tasche della Congregazione. Questo tocca il problema della povertà, ne parlerò dopo. Ma l’avidità di denaro è il primo scalino per la corruzione di una parrocchia, di una diocesi, di una Congregazione di vita consacrata, è il primo scalino. Credo che fosse a questo proposito: il pagamento per i sacramenti. Guardate, se qualcuno vi chiede questo, denunciate il fatto. La salvezza è gratuita. Dio ci ha inviato gratuitamente; la salvezza è come uno “spreco di gratuità”. Non c’è salvezza a pagamento, non ci sono sacramenti a pagamento. E’ chiaro questo? Io conosco, ho visto nella mia vita corruzione in questo. Ricordo un caso, appena nominato vescovo, avevo la zona più povera di Buenos Aires: è divisa in quattro vicariati. Lì c’erano tanti migranti dei Paesi americani, e succedeva che quando venivano a sposarsi i parroci dicevano: “Questa gente non ha il certificato di battesimo”. E quando lo richiedevano nel loro paese dicevano loro: “Sì, ma manda prima 100 dollari – ricordo un caso – e poi te lo invio”. […]

Sì. Tutte le religiose, tutte le consacrate devono vivere misticamente, perché il vostro è uno sposalizio; la vostra è una vocazione di maternità, è una vocazione di essere al posto della Madre Chiesa e della Madre Maria. Ma quelli che vi dicono questo, pensano che essere mistico è essere una mummia, sempre così pregando… No, no. Si deve pregare e lavorare secondo il proprio carisma; e quando il carisma ti porta ad andare avanti con i rifugiati, con i poveri tu devi farlo, e ti diranno “comunista”: è il meno che ti diranno. Ma devi farlo. Perché il carisma ti porta a questo. In Argentina, ricordo una suora: è stata provinciale della sua congregazione. Una brava donna, e lavora ancora… ha quasi la mia età, sì. E lavora contro i trafficanti di giovani, di persone. Io ricordo, nel governo militare in Argentina, volevano mandarla in carcere, facevano pressione sull’arcivescovo, facevano pressione sulla superiora provinciale, prima che lei stessa diventasse provinciale, “perché questa donna è comunista”. E questa donna ha salvato tante ragazze, tante ragazze! E sì, è la croce. Di Gesù che cosa hanno detto? Che era Belzebù, che aveva il potere di Belzebù. La calunnia, siate preparate. Se fate il bene, con preghiera, davanti a Dio, assumendo tutte le conseguenze del vostro carisma e andate avanti, preparatevi per la diffamazione e la calunnia, perché il Signore ha scelto questa via per Sé!