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MESSAGGIO URBI ET ORBI DEL SANTO PADRE FRANCESCO PASQUA 2017

[…]Si fa carico di quanti sono vittime di antiche e nuove schiavitù: lavori disumani, traffici illeciti, sfruttamento e discriminazione, gravi dipendenze. Si fa carico dei bambini e degli adolescenti che vengono privati della loro spensieratezza per essere sfruttati; e di chi ha il cuore ferito per le violenze che subisce entro le mura della propria casa.

Il Pastore Risorto si fa compagno di strada di quanti sono costretti a lasciare la propria terra a causa di conflitti armati, di attacchi terroristici, di carestie, di regimi oppressivi. A questi migranti forzati Egli fa incontrare dei fratelli sotto ogni cielo, per condividere il pane e la speranza nel comune cammino.

In questi tempi, in modo particolare sostenga gli sforzi di quanti si adoperano attivamente per portare sollievo e conforto alla popolazione civile in Siria, l’amata e martoriata Siria, vittima di una guerra che non cessa di seminare orrore e morte. È di ieri l’ultimo ignobile attacco ai profughi in fuga che ha provocato numerosi morti e feriti. Doni pace a tutto il Medio Oriente, a partire dalla Terra Santa, come pure in Iraq e nello Yemen. […]

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OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

[…] E se facciamo uno sforzo con la nostra immaginazione, nel volto di queste donne possiamo trovare i volti di tante madri e nonne, il volto di bambini e giovani che sopportano il peso e il dolore di tanta disumana ingiustizia. Vediamo riflessi in loro i volti di tutti quelli che, camminando per la città, sentono il dolore della miseria, il dolore per lo sfruttamento e la tratta. In loro vediamo anche i volti di coloro che sperimentano il disprezzo perché sono immigrati, orfani di patria, di casa, di famiglia; i volti di coloro il cui sguardo rivela solitudine e abbandono perché hanno mani troppo rugose. Esse riflettono il volto di donne, di madri che piangono vedendo che la vita dei loro figli resta sepolta sotto il peso della corruzione che sottrae diritti e infrange tante aspirazioni, sotto l’egoismo quotidiano che crocifigge e seppellisce la speranza di molti, sotto la burocrazia paralizzante e sterile che non permette che le cose cambino. Nel loro dolore, esse hanno il volto di tutti quelli che, camminando per la città, vedono crocifissa la dignità.. […]

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

[…] Ma il dramma di questo mondo è che i giovani – e questo è il dramma della gioventù di oggi! – che i giovani spesso sono scartati. Non hanno lavoro, non hanno un ideale da realizzare, manca l’educazione, manca l’integrazione… Tanti giovani devono fuggire, emigrare in altre terre… I giovani, oggi, è duro dirlo, ma spesso sono “materiale di scarto”. E questo noi non possiamo tollerarlo!

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI PARTECIPANTI AL CAPITOLO GENERALE DELL’ORDINE DEI CHIERICI REGOLARI SOMASCHI

[…] E parlando di orfani, ci sono i nuovi “mezzi orfani”: quei migranti, ragazzi, bambini che vengono da soli nelle nostre terre e hanno bisogno di trovare paternità e maternità. Vorrei sottolineare questo: sui barconi tanti vengono da soli e hanno bisogno di questo. Questo ed altro è compito vostro. […]

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI CAPI DI STATO E DI GOVERNO DELL’UNIONE EUROPEA, IN OCCASIONE DEL 60° ANNIVERSARIO DELLA FIRMA DEI TRATTATI DI ROMA

[…] Nel nostro mondo multiculturale tali valori continueranno a trovare piena cittadinanza se sapranno mantenere il loro nesso vitale con la radice che li ha generati. Nella fecondità di tale nesso sta la possibilità di edificare società autenticamente laiche, scevre da contrapposizioni ideologiche, nelle quali trovano ugualmente posto l’oriundo e l’autoctono, il credente e il non credente. […]

C’è la crisi economica, che ha contraddistinto l’ultimo decennio, c’è la crisi della famiglia e di modelli sociali consolidati, c’è una diffusa “crisi delle istituzioni” e la crisi dei migranti: tante crisi, che celano la paura e lo smarrimento profondo dell’uomo contemporaneo, che chiede una nuova ermeneutica per il futuro. Tuttavia, il termine “crisi” non ha una connotazione di per sé negativa. Non indica solo un brutto momento da superare. La parola crisi ha origine nel verbo greco crino (κρίνω), che significa investigare, vagliare, giudicare. Il nostro è dunque un tempo di discernimento, che ci invita a vagliare l’essenziale e a costruire su di esso: è dunque un tempo di sfide e di opportunità.

[…] L’apertura al mondo implica la capacità di «dialogo come forma di incontro»[18] a tutti i livelli, a cominciare da quello fra gli Stati membri e fra le Istituzioni e i cittadini, fino a quello con i numerosi immigrati che approdano sulle coste dell’Unione. Non ci si può limitare a gestire la grave crisi migratoria di questi anni come fosse solo un problema numerico, economico o di sicurezza. La questione migratoria pone una domanda più profonda, che è anzitutto culturale. Quale cultura propone l’Europa oggi? La paura che spesso si avverte trova, infatti, nella perdita d’ideali la sua causa più radicale. Senza una vera prospettiva ideale si finisce per essere dominati dal timore che l’altro ci strappi dalle abitudini consolidate, ci privi dei confort acquisiti, metta in qualche modo in discussione uno stile di vita fatto troppo spesso solo di benessere materiale. Al contrario, la ricchezza dell’Europa è sempre stata la sua apertura spirituale e la capacità di porsi domande fondamentali sul senso dell’esistenza.[…]

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI PARTECIPANTI AL FORUM INTERNAZIONALE “MIGRAZIONI E PACE”

Gentili Signori e Signore,
rivolgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto, con sentita riconoscenza per il vostro prezioso lavoro. Ringrazio Monsignor Tomasi per le sue cortesi parole e il Dottor Pöttering per il suo intervento; come pure sono grato per le tre testimonianze, che rappresentano dal vivo il tema di questo Forum: “Integrazione e sviluppo: dalla reazione all’azione”. In effetti, non è possibile leggere le attuali sfide dei movimenti migratori contemporanei e della costruzione della pace senza includere il binomio “sviluppo e integrazione”: a tal fine ho voluto istituire il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, all’interno del quale una Sezione si occupa specificamente di quanto concerne i migranti, i rifugiati e le vittime della tratta.
Le migrazioni, nelle loro diverse forme, non rappresentano certo un fenomeno nuovo nella storia dell’umanità. Esse hanno marcato profondamente ogni epoca, favorendo l’incontro dei popoli e la nascita di nuove civiltà. Nella sua essenza, migrare è espressione dell’intrinseco anelito alla felicità proprio di ogni essere umano, felicità che va ricercata e perseguita. Per noi cristiani, tutta la vita terrena è un itinerare verso la patria celeste.
L’inizio di questo terzo millennio è fortemente caratterizzato da movimenti migratori che, in termini di origine, transito e destinazione, interessano praticamente ogni parte della terra. Purtroppo, in gran parte dei casi, si tratta di spostamenti forzati, causati da conflitti, disastri naturali, persecuzioni, cambiamenti climatici, violenze, povertà estrema e condizioni di vita indegne: «è impressionante il numero di persone che migra da un continente all’altro, così come di coloro che si spostano all’interno dei propri Paesi e delle proprie aree geografiche. I flussi migratori contemporanei costituiscono il più vasto movimento di persone, se non di popoli, di tutti i tempi»[1].
Davanti a questo complesso scenario, sento di dover esprimere una particolare preoccupazione per la natura forzosa di molti flussi migratori contemporanei, che aumenta le sfide poste alla comunità politica, alla società civile e alla Chiesa e chiede di rispondere ancor più urgentemente a tali sfide in modo coordinato ed efficace.
La nostra comune risposta si potrebbe articolare attorno a quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare.
Accogliere. «C’è un’indole del rifiuto che ci accomuna, che induce a non guardare al prossimo come ad un fratello da accogliere, ma a lasciarlo fuori dal nostro personale orizzonte di vita, a trasformarlo piuttosto in un concorrente, in un suddito da dominare»[2]. Di fronte a questa indole del rifiuto, radicata in ultima analisi nell’egoismo e amplificata da demagogie populistiche, urge un cambio di atteggiamento, per superare l’indifferenza e anteporre ai timori un generoso atteggiamento di accoglienza verso coloro che bussano alle nostre porte. Per quanti fuggono da guerre e persecuzioni terribili, spesso intrappolati nelle spire di organizzazioni criminali senza scrupoli, occorre aprire canali umanitari accessibili e sicuri. Un’accoglienza responsabile e dignitosa di questi nostri fratelli e sorelle comincia dalla loro prima sistemazione in spazi adeguati e decorosi. I grandi assembramenti di richiedenti asilo e rifugiati non hanno dato risultati positivi, generando piuttosto nuove situazioni di vulnerabilità e di disagio. I programmi di accoglienza diffusa, già avviati in diverse località, sembrano invece facilitare l’incontro personale, permettere una migliore qualità dei servizi e offrire maggiori garanzie di successo.
Proteggere. Il mio predecessore, Papa Benedetto, ha evidenziato che l’esperienza migratoria rende spesso le persone più vulnerabili allo sfruttamento, all’abuso e alla violenza[3]. Parliamo di milioni di lavoratori e lavoratrici migranti – e tra questi particolarmente quelli in situazione irregolare –, di profughi e richiedenti asilo, di vittime della tratta. La difesa dei loro diritti inalienabili, la garanzia delle libertà fondamentali e il rispetto della loro dignità sono compiti da cui nessuno si può esimere. Proteggere questi fratelli e sorelle è un imperativo morale da tradurre adottando strumenti giuridici, internazionali e nazionali, chiari e pertinenti; compiendo scelte politiche giuste e lungimiranti; prediligendo processi costruttivi, forse più lenti, ai ritorni di consenso nell’immediato; attuando programmi tempestivi e umanizzanti nella lotta contro i “trafficanti di carne umana” che lucrano sulle sventure altrui; coordinando gli sforzi di tutti gli attori, tra i quali, potete starne certi, ci sarà sempre la Chiesa.
Promuovere. Proteggere non basta, occorre promuovere lo sviluppo umano integrale di migranti, profughi e rifugiati, che «si attua mediante la cura per i beni incommensurabili della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato»[4]. Lo sviluppo, secondo la dottrina sociale della Chiesa[5], è un diritto innegabile di ogni essere umano. Come tale, deve essere garantito assicurandone le condizioni necessarie per l’esercizio, tanto nella sfera individuale quanto in quella sociale, dando a tutti un equo accesso ai beni fondamentali e offrendo possibilità di scelta e di crescita. Anche in questo è necessaria un’azione coordinata e previdente di tutte le forze in gioco: dalla comunità politica alla società civile, dalle organizzazioni internazionali alle istituzioni religiose. La promozione umana dei migranti e delle loro famiglie comincia dalle comunità di origine, là dove deve essere garantito, assieme al diritto di poter emigrare, anche il diritto di non doveremigrare[6], ossia il diritto di trovare in patria condizioni che permettano una dignitosa realizzazione dell’esistenza. A tal fine vanno incoraggiati gli sforzi che portano all’attuazione di programmi di cooperazione internazionale svincolati da interessi di parte e di sviluppo transnazionale in cui i migranti sono coinvolti come protagonisti.
Integrare. L’integrazione, che non è né assimilazione né incorporazione, è un processo bidirezionale, che si fonda essenzialmente sul mutuo riconoscimento della ricchezza culturale dell’altro: non è appiattimento di una cultura sull’altra, e nemmeno isolamento reciproco, con il rischio di nefaste quanto pericolose “ghettizzazioni”. Per quanto concerne chi arriva ed è tenuto a non chiudersi alla cultura e alle tradizioni del Paese ospitante, rispettandone anzitutto le leggi, non va assolutamente trascurata la dimensione familiare del processo di integrazione: per questo mi sento di dover ribadire la necessità, più volte evidenziata dal Magistero[7], di politiche atte a favorire e privilegiare i ricongiungimenti familiari. Per quanto riguarda le popolazioni autoctone, esse vanno aiutate, sensibilizzandole adeguatamente e disponendole positivamente ai processi integrativi, non sempre semplici e immediati, ma sempre essenziali e per l’avvenire imprescindibili. Per questo occorrono anche programmi specifici, che favoriscano l’incontro significativo con l’altro. Per la comunità cristiana, poi, l’integrazione pacifica di persone di varie culture è, in qualche modo, anche un riflesso della sua cattolicità, giacché l’unità che non annulla le diversità etniche e culturali costituisce una dimensione della vita della Chiesa, che nello Spirito della Pentecoste a tutti è aperta e tutti desidera abbracciare[8].
Credo che coniugare questi quattro verbi, in prima persona singolare e in prima persona plurale, rappresenti oggi un dovere, un dovere nei confronti di fratelli e sorelle che, per ragioni diverse, sono forzati a lasciare il proprio luogo di origine: un dovere di giustizia, di civiltà e di solidarietà.
Anzitutto, un dovere di giustizia. Non sono più sostenibili le inaccettabili disuguaglianze economiche, che impediscono di mettere in pratica il principio della destinazione universale dei beni della terra. Siamo tutti chiamati a intraprendere processi di condivisione rispettosa, responsabile e ispirata ai dettami della giustizia distributiva. «È necessario allora trovare i modi affinché tutti possano beneficiare dei frutti della terra, non soltanto per evitare che si allarghi il divario tra chi più ha e chi deve accontentarsi delle briciole, ma anche e soprattutto per un’esigenza di giustizia e di equità e di rispetto verso ogni essere umano»[9]. Non può un gruppetto di individui controllare le risorse di mezzo mondo. Non possono persone e popoli interi aver diritto a raccogliere solo le briciole. E nessuno può sentirsi tranquillo e dispensato dagli imperativi morali che derivano dalla corresponsabilità nella gestione del pianeta, una corresponsabilità più volte ribadita dalla comunità politica internazionale, come pure dal Magistero[10]. Tale corresponsabilità è da interpretare in accordo col principio di sussidiarietà, «che conferisce libertà per lo sviluppo delle capacità presenti a tutti i livelli, ma al tempo stesso esige più responsabilità verso il bene comune da parte di chi detiene più potere»[11]. Fare giustizia significa anche riconciliare la storia con il presente globalizzato, senza perpetuare logiche di sfruttamento di persone e territori, che rispondono al più cinico uso del mercato, per incrementare il benessere di pochi. Come ha affermato Papa Benedetto, il processo di decolonizzazione è stato ritardato «sia a causa di nuove forme di colonialismo e di dipendenza da vecchi e nuovi Paesi egemoni, sia per gravi irresponsabilità interne agli stessi Paesi resisi indipendenti»[12]. A tutto ciò bisogna riparare.
In secondo luogo, vi è un dovere di civiltà. Il nostro impegno a favore dei migranti, dei profughi e dei rifugiati è un’applicazione di quei principi e valori di accoglienza e fraternità che costituiscono un patrimonio comune di umanità e saggezza cui attingere. Tali principi e valori sono stati storicamente codificati nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, in numerose convenzioni e patti internazionali. «Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione»[13]. Oggi più che mai è necessario riaffermare la centralità della persona umana, senza permettere che condizioni contingenti e accessorie, come anche il pur necessario adempimento di requisiti burocratici o amministrativi, ne offuschino l’essenziale dignità. Come ha dichiarato san Giovanni Paolo II, «la condizione di irregolarità legale non consente sconti sulla dignità del migrante, il quale è dotato di diritti inalienabili, che non possono essere violati né ignorati»[14]. Per dovere di civiltà va anche recuperato il valore della fraternità, che si fonda sulla nativa costituzione relazionale dell’essere umano: «la viva consapevolezza di questa relazionalità ci porta a vedere e trattare ogni persona come una vera sorella e un vero fratello; senza di essa diventa impossibile la costruzione di una società giusta, di una pace solida e duratura»[15]. La fraternità è il modo più civile di rapportarsi con la presenza dell’altro, la quale non minaccia, ma interroga, riafferma e arricchisce la nostra identità individuale[16].
C’è, infine, un dovere di solidarietà. Di fronte alle tragedie che “marcano a fuoco” la vita di tanti migranti e rifugiati – guerre, persecuzioni, abusi, violenze, morte –, non possono che sgorgare spontanei sentimenti di empatia e compassione. “Dov’è tuo fratello?” (cfr Gen 4,9): questa domanda, che Dio pone all’uomo fin dalle origini, ci coinvolge, oggi specialmente a riguardo dei fratelli e delle sorelle che migrano: «Non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi»[17]. La solidarietà nasce proprio dalla capacità di comprendere i bisogni del fratello e della sorella in difficoltà e di farsene carico. Su questo, in sostanza, si fonda il valore sacro dell’ospitalità, presente nelle tradizioni religiose. Per noi cristiani, l’ospitalità offerta al forestiero bisognoso di riparo è offerta a Gesù Cristo stesso, immedesimatosi nello straniero: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). È dovere di solidarietà contrastare la cultura dello scarto e nutrire maggiore attenzione per i più deboli, poveri e vulnerabili. Per questo «è necessario un cambio di atteggiamento verso i migranti e rifugiati da parte di tutti; il passaggio da un atteggiamento di difesa e di paura, di disinteresse o di emarginazione – che, alla fine, corrisponde proprio alla “cultura dello scarto” – ad un atteggiamento che abbia alla base la “cultura dell’incontro”, l’unica capace di costruire un mondo più giusto e fraterno, un mondo migliore»[18].
A conclusione di questa riflessione, permettetemi di richiamare l’attenzione su un gruppo particolarmente vulnerabile tra i migranti, profughi e rifugiati che siamo chiamati ad accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Mi riferisco ai bambini e agli adolescenti che sono forzati a vivere lontani dalla loro terra d’origine e separati dagli affetti familiari. A loro ho dedicato il più recente Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, sottolineando come «occorre puntare sulla protezione, sull’integrazione e su soluzioni durature»[19].
Confido che questi due giorni di lavori porteranno frutti abbondanti di buone opere. Vi assicuro la mia preghiera; e voi, per favore, non dimenticate di pregare per me. Grazie.

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO ALL’UNIVERSITÀ ROMA TRE

[…] Tante urgenze sociali e tante situazioni di disagio e di povertà ci interpellano: pensiamo alle persone che vivono per strada, ai migranti, a quanti necessitano non solo di cibo e vestiti, ma di un inserimento nella società, come ad esempio coloro che escono dal carcere. Venendo incontro a queste povertà sociali, ci si rende protagonisti di azioni costruttive che si oppongono a quelle distruttive dei conflitti violenti e si oppongono anche alla cultura dell’edonismo e dello scarto, basata sugli idoli del denaro, del piacere, dell’apparire… Invece, lavorando con progetti, anche piccoli, che favoriscono l’incontro e la solidarietà, si recupera insieme un senso di fiducia nella vita. […]

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LETTERA APOSTOLICA IN FORMA DI «MOTU PROPRIO» DEL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO SANCTUARIUM IN ECCLESIA on la quale si trasferiscono le competenze sui Santuari al Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione

4. […] Attraverso la spiritualità propria di ogni Santuario, i pellegrini sono condotti con la “pedagogia di evangelizzazione” [6] ad un impegno sempre più responsabile sia nella loro formazione cristiana, sia nella necessaria testimonianza di carità che ne scaturisce. Il Santuario, inoltre, contribuisce non poco all’impegno catechetico della comunità cristiana;[7] trasmettendo, infatti, in modo coerente ai tempi il messaggio che ha dato inizio alla sua fondazione, arricchisce la vita dei credenti, offrendo loro le ragioni per un impegno nella fede (cfr 1 Ts 1,3) più maturo e consapevole. Nel Santuario, infine, si spalancano le porte ai malati, alle persone disabili e, soprattutto, ai poveri, agli emarginati, ai rifugiati e migranti. […]

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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO IN OCCASIONE DELL’INCONTRO DEI MOVIMENTI POPOLARI A MODESTO, CALIFORNIA

Cari fratelli,
Vorrei innanzitutto congratularmi con voi per lo sforzo di riprodurre a livello nazionale il lavoro che state svolgendo negli Incontri Mondiali dei Movimenti Popolari. Desidero, attraverso questa lettera, animare e rafforzare ognuno di voi, le vostre organizzazioni e tutti coloro che lottano per le tre T: «tierra, techo y trabajo», terra, tetto e lavoro. Mi congratulo con voi per tutto quello che fate.
Vorrei ringraziare la Campaign for Human Development, il suo presidente, Monsignor David Talley, e i Vescovi ospitanti Stephen Blaire, Armando Ochoa e Jaime Soto, per il deciso appoggio che hanno offerto a questo incontro. Grazie Cardinale Turkson perché continua ad accompagnare i movimenti popolari dal nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. Mi fa tanto piacere vedervi lavorare insieme per la giustizia sociale! Come vorrei che in tutte le diocesi si diffonda questa energia costruttiva, che getta ponti tra i popoli e le persone, ponti capaci di attraversare i muri dell’esclusione, dell’indifferenza, del razzismo e dell’intolleranza.
Vorrei anche sottolineare il lavoro della Rete Nazionale PICO e delle organizzazioni promotrici di questo incontro. Ho saputo che PICO significa «persone che migliorano le loro comunità attraverso l’organizzazione». Che bella sintesi della missione dei movimenti popolari: lavorare nel vostro ambiente, accanto al prossimo, organizzati tra voi, per portare avanti le vostre comunità.
Pochi mesi fa, a Roma, abbiamo parlato dei muri e della paura; dei ponti e dell’amore. Non voglio ripetermi: questi temi sfidano i nostri valori più profondi.
Sappiamo che nessuno di questi mali è cominciato ieri. Da tempo stiamo affrontando la crisi del paradigma imperante, un sistema che causa enormi sofferenze alla famiglia umana, attaccando al tempo stesso la dignità delle persone e la nostra Casa Comune, per sostenere la tirannia invisibile del Denaro, che garantisce solo i privilegi di pochi. «L’umanità vive una svolta storica» (Papa Francesco, Evangelii gaudium, n. 52).
A noi cristiani, e a tutte le persone di buona volontà, spetta vivere e agire in questo momento. «Si tratta di una responsabilità grave, giacché alcune realtà del presente, se non trovano buone soluzioni, possono innescare processi di disumanizzazione da cui è poi difficile tornare indietro» (Ibidem, n. 51). Sono i “segni dei tempi” che dobbiamo riconoscere per agire. Abbiamo perso tempo prezioso senza prestare loro sufficiente attenzione, senza risolvere queste realtà distruttrici. Così i processi di disumanizzazione si accelerano. Dalla partecipazione dei popoli come protagonisti, e in gran misura da voi, movimenti popolari, dipende la direzione che questa svolta storica prenderà e la soluzione di questa crisi che si sta acuendo.
Non dobbiamo restare paralizzati dalla paura ma neanche restare imprigionati nel conflitto. Bisogna riconoscere il pericolo ma anche l’opportunità che ogni crisi presuppone per avanzare verso una sintesi superatrice. Nella lingua cinese, che esprime l’ancestrale saggezza di quel grande popolo, la parola crisi è formata da due ideogrammi: Wēi che rappresenta il pericolo e Jī che rappresenta l’opportunità.
Il pericolo è negare il prossimo e così, senza rendercene conto, negare la sua umanità, la nostra umanità, negare noi stessi, e negare il più importante dei comandamenti di Gesù. Questa è la disumanizzazione. Ma esiste un’opportunità: che la luce dell’amore per il prossimo illumini la Terra con la sua lucentezza abbagliante, come un lampo nell’oscurità, che ci risvegli e che la nuova umanità germogli con quella ostinata e forte resistenza di ciò che è autentico.
Oggi risuona nelle nostre orecchie la domanda che il dottore della legge fa a Gesù nel Vangelo di Luca: «E chi è il mio prossimo?». Chi è colui che si deve amare come se stessi? Forse si aspettava una risposta comoda per poter continuare con la sua vita: «Saranno i miei parenti? I miei connazionali? Quelli della mia religione?…». Forse voleva portare Gesù a esentarci dall’obbligo di amare i pagani e gli stranieri considerati impuri a quel tempo. Quest’uomo vuole una regola chiara che gli permetta di classificare gli altri in “prossimo” e “non-prossimo”, in quelli che possono diventare prossimi e in quelli che non possono diventare prossimi (Papa Francesco, Udienza generale del mercoledì, 27 aprile 2016).
Gesù risponde con una parabola che mette in scena due figure dell’élite di allora e un terzo personaggio, considerato straniero, pagano e impuro: il samaritano. Nel cammino da Gerusalemme a Gerico il sacerdote e il levita incontrano un uomo moribondo, che i ladri hanno assalito, derubato, percosso e abbandonato. La Legge del Signore in situazioni simili prevedeva l’obbligo di soccorrerlo, ma entrambi passano oltre senza fermarsi. Avevano fretta. Ma il samaritano, quell’essere disprezzato, quell’avanzo su cui nessuno avrebbe scommesso, e che in ogni caso aveva anche lui i suoi doveri e le sue cose da fare, quando vide l’uomo ferito, non passò oltre, come gli altri due, che erano relazionati con il Tempio, ma «lo vide e n’ebbe compassione» (v. 33). Il samaritano si comporta con autentica misericordia: benda le ferite di quell’uomo, lo porta in una locanda, si prende cura di lui personalmente, provvede alla sua assistenza.
Tutto ciò c’insegna che la compassione, l’amore, non è un sentimento vago, ma significa prendersi cura dell’altro fino a pagare personalmente. Significa impegnarsi compiendo tutti i passi necessari per “avvicinarsi” all’altro fino a identificarsi con lui; «Amerai il prossimo tuo come te stesso». È questo il comandamento del Signore (Ibidem).
Le ferite che provoca il sistema economico che ha al centro il dio denaro, e che a volte agisce con la brutalità dei ladri della parabola, sono state criminalmente ignorate. Nella società globalizzata, esiste uno stile elegante di guardare dall’altro lato, che si pratica ricorrentemente: sotto le spoglie del politicamente corretto o le mode ideologiche, si guarda chi soffre senza toccarlo, lo si trasmette in diretta, addirittura si adotta un discorso in apparenza tollerante e pieno di eufemismi, ma non si fa nulla di sistematico per curare le ferite sociali e neppure per affrontare le strutture che lasciano tanti esseri umani per strada. Questo atteggiamento ipocrita, tanto diverso da quello del samaritano, manifesta l’assenza di una vera conversione e di un vero impegno con l’umanità.
Si tratta di una truffa morale, che, prima o poi, viene alla luce, come un miraggio che si dilegua. I feriti stanno lì, sono una realtà. La disoccupazione è reale, la corruzione è reale, la crisi d’identità è reale, lo svuotamento delle democrazie è reale. La cancrena di un sistema non si può mascherare in eterno, perché prima o poi il fetore si sente e, quando non si può più negare, nasce dal potere stesso che ha generato quello stato di cose la manipolazione della paura, dell’insicurezza, della protesta, persino della giusta indignazione della gente, che trasferisce la responsabilità di tutti i mali a un “non prossimo”. Non sto parlando di alcune persone in particolare, sto parlando di un processo sociale che si sviluppa in molte parti del mondo e che comporta un grave pericolo per l’umanità.
Gesù ci indica un altro cammino. Non classificare gli altri per vedere chi è il prossimo e chi non lo è. Tu puoi diventare prossimo di chi si trova nel bisogno, e lo sarai se nel tuo cuore hai compassione, cioè se hai la capacità di soffrire con l’altro. Devi diventare samaritano. E poi devi anche essere come l’albergatore a cui il samaritano affida, alla fine della parabola, la persona che soffre. Chi era questo albergatore? È la Chiesa, la comunità cristiana, le persone solidali, le organizzazioni sociali, siamo noi, siete voi, a cui il Signore Gesù, ogni giorno, affida quanti soffrono, nel corpo e nello spirito, affinché possiamo continuare a effondere su di loro, oltremisura, tutta la sua misericordia e la sua salvezza. In questo consiste l’autentica umanità che resiste alla disumanizzazione che si offre a noi sotto la forma dell’indifferenza, dell’ipocrisia, e dell’intolleranza. So che voi vi siete assunti l’impegno di lottare per la giustizia sociale, di difendere la sorella madre terra e di accompagnare i migranti. Desidero riaffermarvi nella vostra scelta e condividere con voi due riflessioni al riguardo.
La crisi ecologica è reale. «Esiste un consenso scientifico molto consistente che indica che siamo in presenza di un preoccupante riscaldamento del sistema climatico» (Papa Francesco, Laudato si’, n. 23). La scienza non è l’unica forma di conoscenza, è indubbio. E la scienza non è necessariamente “neutrale”, anche questo è indubbio, molte volte occulta posizioni ideologiche o interessi economici. Ma sappiamo anche che cosa succede quando neghiamo la scienza e non ascoltiamo la voce della natura. Mi faccio carico di quello che spetta a noi cattolici. Non dobbiamo cadere nel negazionismo. Il tempo si sta esaurendo. Dobbiamo agire. Chiede nuovamente a voi, ai popoli nativi, ai pastori, ai governanti, di difendere il Creato.
L’altra è una riflessione che ho già fatto nel nostro ultimo incontro ma che mi sembra importante ripetere: nessun popolo è criminale e nessuna religione è terrorista. Non esiste il terrorismo cristiano, non esiste il terrorismo ebreo e non esiste il terrorismo islamico. Non esiste. Nessun popolo è criminale o narcotrafficante o violento. «Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione» (Papa Francesco, Evangelii gaudium, n. 52). Ci sono persone fondamentaliste e violente in tutti i popoli e religioni che, tra l’altro, si rafforzano con le generalizzazioni intolleranti, si alimentano dell’odio e della xenofobia. Affrontando il terrore con amore lavoriamo per la pace.
Vi chiedo fermezza e mitezza nel difendere questi principi: vi chiedo di non scambiarli come merce a buon mercato e, come san Francesco d’Assisi, di dare tutto ciò che abbiamo affinché: «Dove è odio, fa ch’io porti amore, dove è offesa, ch’io porti il perdono, dove è discordia, ch’io porti la fede, dove è l’errore, ch’io porti la Verità» (Preghiera di san Francesco d’Assisi, frammento).
Sappiate che prego per voi, che prego con voi e chiedo a nostro Padre Dio che vi accompagni e vi benedica, che vi colmi del suo amore e vi protegga. Vi chiedo per favore di pregare per me e di andare avanti.

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO ALLA COMUNITÀ DE “LA CIVILTÀ CATTOLICA”

[…] La crisi è globale, e quindi è necessario rivolgere il nostro sguardo alle convinzioni culturali dominanti e ai criteri tramite i quali le persone ritengono che qualcosa sia buono o cattivo, desiderabile o no. Solo un pensiero davvero aperto può affrontare la crisi e la comprensione di dove sta andando il mondo, di come si affrontano le crisi più complesse e urgenti, la geopolitica, le sfide dell’economia e la grave crisi umanitaria legata al dramma delle migrazioni, che è il vero nodo politico globale dei nostri giorni. […]