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IL PAPA INCONTRA I RIFUGIATI ARRIVATI RECENTEMENTE DA LESBO CON I CORRIDOI UMANITARI DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Questo è il secondo giubbotto salvagente che ricevo in dono. Il primo mi è stato regalato qualche anno fa da un gruppo di soccorritori. Apparteneva a una bambina che è annegata nel Mediterraneo. L’ho donato poi ai due Sottosegretari della Sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. Ho detto loro: “Ecco la vostra missione!”. Con ciò ho voluto significare l’imprescindibile impegno della Chiesa a salvare le vite dei migranti, per poi poterli accogliere, proteggere, promuovere ed integrare. Questo secondo giubbotto, consegnato da un altro gruppo di soccorritori solo qualche giorno fa, è appartenuto a un migrante scomparso in mare lo scorso luglio. Nessuno sa chi fosse o da dove venisse. Solo si sa che il suo giubbotto è stato recuperato alla deriva nel Mediterraneo Centrale, il 3 luglio 2019, a determinate coordinate geografiche. Siamo di fronte ad un’altra morte causata dall’ingiustizia. Già, perché è l’ingiustizia che costringe molti migranti a lasciare le loro terre. È l’ingiustizia che li obbliga ad attraversare deserti e a subire abusi e torture nei campi di detenzione. È l’ingiustizia che li respinge e li fa morire in mare. Il giubbotto “veste” una croce in resina colorata, che vuole esprimere l’esperienza spirituale che ho potute cogliere dalle parole dei soccorritori. In Gesù Cristo la croce è fonte di salvezza, «stoltezza per quelli che si perdono – dice San Paolo –, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio» (1Cor 1,18). Nella tradizione cristiana la croce è simbolo di sofferenza e sacrificio e, al tempo stesso, di redenzione e di salvezza. Questa croce è trasparente: essa si pone come sfida a guardare con maggiore attenzione e a cercare sempre la verità. La croce è luminescente: vuole rincuorare la nostra fede nella Risurrezione, il trionfo di Cristo sulla morte. Anche il migrante ignoto, morto con la speranza in una nuova vita, è partecipe di questa vittoria. I soccorritori mi hanno raccontato come stiano imparando l’umanità dalle persone che riescono a salvare. Mi hanno rivelato come in ogni missione riscoprano la bellezza di essere un’unica grande famiglia umana, unita nella fraternità universale. Ho deciso di esporre qui questo giubbotto salvagente, “crocifisso” su questa croce, per ricordarci che dobbiamo tenere aperti gli occhi, tenere aperto il cuore, per ricordare a tutti l’impegno inderogabile di salvare ogni vita umana, un dovere morale che unisce credenti e non credenti. Come possiamo non ascoltare il grido disperato di tanti fratelli e sorelle che preferiscono affrontare un mare in tempesta piuttosto che morire lentamente nei campi di detenzione libici, luoghi di tortura e schiavitù ignobile? Come possiamo rimanere indifferenti di fronte agli abusi e alle violenze di cui sono vittime innocenti, lasciandoli alle mercé di trafficanti senza scrupoli? Come possiamo “passare oltre”, come il sacerdote e il levita della parabola del Buon Samaritano (cfr Lc 10,31-32), facendoci così responsabili della loro morte? La nostra ignavia è peccato! Ringrazio il Signore per tutti coloro che hanno deciso di non restare indifferenti e si prodigano a soccorrere il malcapitato, senza farsi troppe domande sul come o sul perché il povero mezzo morto sia finito sulla loro strada. Non è bloccando le loro imbarcazioni che si risolve il problema. Bisogna impegnarsi seriamente a svuotare i campi di detenzione in Libia, valutando e attuando tutte le soluzioni possibili. Bisogna denunciare e perseguire i trafficanti che sfruttano e maltrattano i migranti, senza timore di rivelare connivenze e complicità con le istituzioni. Bisogna mettere da parte gli interessi economici perché al centro ci sia la persona, ogni persona, la cui vita e dignità sono preziose agli occhi di Dio. Bisogna soccorrere e salvare, perché siamo tutti responsabili della vita del nostro prossimo, e il Signore ce ne chiederà conto al momento del giudizio. Grazie. Adesso, guardando questo giubbotto e guardando la croce, ognuno in silenzio preghi. Il Signore benedica tutti voi.

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SANTA MESSA PER LA COMUNITÀ CATTOLICA FILIPPINA OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

(…) Nelle Filippine, da secoli, esiste una novena in preparazione al Santo Natale chiamata Simbang-Gabi (Messa della notte). Durante nove giorni i fedeli filippini si ritrovano all’alba nelle loro parrocchie per una speciale celebrazione eucaristica. Negli ultimi decenni, grazie ai migranti filippini, tale devozione ha superato i confini nazionali ed è approdata in tanti altri Paesi. Da anni si celebra Simbang-Gabi anche nella diocesi di Roma, e oggi la celebriamo insieme qui, nella Basilica di San Pietro. Attraverso questa celebrazione ci vogliamo preparare al Natale secondo lo spirito della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, rimanendo costanti fino alla venuta definitiva del Signore, come ci raccomanda l’apostolo Giacomo (cfr Gc 5,7). Ci vogliamo impegnare a manifestare l’amore e la tenerezza di Dio verso tutti, specialmente verso gli ultimi. Siamo chiamati ad essere fermento in una società che spesso non riesce più a gustare la bellezza di Dio e a sperimentare la grazia della sua presenza. E voi, cari fratelli e sorelle, che avete lasciato la vostra terra alla ricerca di un futuro migliore, avete una missione speciale. La vostra fede sia “lievito” nelle comunità parrocchiali alle quali appartenete oggi. Vi incoraggio a moltiplicare le opportunità di incontro per condividere la vostra ricchezza culturale e spirituale, lasciandovi nello stesso tempo arricchire dalle esperienze altrui. Siamo tutti invitati a costruire assieme quella comunione nella diversità che costituisce un tratto distintivo del Regno di Dio, inaugurato da Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo. Siamo tutti chiamati a praticare assieme la carità verso gli abitanti delle periferie esistenziali, mettendo a servizio i nostri doni diversi, così da rinnovare i segni della presenza del Regno. Siamo tutti chiamati ad annunciare assieme il Vangelo, la Buona Novella di salvezza, in tutte le lingue, così da raggiungere più persone possibile. (…)

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SANTA MESSA PER LA COMUNITÀ CATTOLICA CONGOLESE A ROMA E IN ITALIA OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Papa Francesco: Boboto [pace] Assemblea: Bondeko [faternita] Papa Francesco: Bondeko Assemblea: Esengo [gioia] Nelle Letture di oggi compare spesso un verbo, venire, presente tre volte nella prima Lettura, mentre il Vangelo si conclude dicendo che «viene il Figlio dell’uomo» (Mt 24,44). Gesu viene: l’Avvento ci ricorda questa certezza gia dal nome, perche la parola Avvento significa venuta. Il Signore viene: ecco la radice della nostra speranza, la sicurezza che tra le tribolazioni del mondo giunge a noi la consolazione di Dio, una consolazione che non e fatta di parole, ma di presenza, della sua presenza che viene in mezzo a noi. Il Signore viene; oggi, primo giorno dell’Anno liturgico, questo annuncio segna il nostro punto di partenza: sappiamo che, al di la di ogni evento favorevole o contrario, il Signore non ci lascia soli. E venuto duemila anni fa e verra ancora alla fine dei tempi, ma viene anche oggi nella mia vita, nella tua vita. Si, questa nostra vita, con tutti i suoi problemi, le sue angosce e le sue incertezze, e visitata dal Signore. Ecco la sorgente della nostra gioia: il Signore non si e stancato e non si stanchera mai di noi, desidera venire, visitarci. Oggi il verbo venire non si coniuga solo per Dio, ma anche per noi. Infatti nella prima Lettura Isaia profetizza: «Verranno molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore”» (2,3). Mentre il male sulla terra deriva dal fatto che ciascuno segue il proprio cammino senza gli altri, il profeta offre una visione meravigliosa: tutti vengono insieme al monte del Signore. Sul monte c’era il tempio, la casa di Dio. Isaia ci trasmette dunque un invito da parte di Dio a casa sua. Siamo gli invitati di Dio, e chi e invitato e atteso, desiderato. “Venite – dice Dio – perche a casa mia c’e posto per tutti. Venite, perche nel mio cuore non c’e un solo popolo, ma ogni popolo”. Cari fratelli e sorelle, siete venuti da lontano. Avete lasciato le vostre case, avete lasciato affetti e cose care. Giunti qui, avete trovato accoglienza insieme a difficolta e imprevisti. Ma per Dio siete sempre invitati graditi. Per Lui non siamo mai estranei, ma figli attesi. E la Chiesa e la casa di Dio: qui, dunque, sentitevi sempre a casa. Qui veniamo per camminare insieme verso il Signore e realizzare le parole con cui si conclude la profezia di Isaia: «Venite, camminiamo nella luce del Signore» (v. 5). Ma alla luce del Signore si possono preferire le tenebre del mondo. Al Signore che viene e al suo invito ad andare a Lui si puo rispondere “no, non ci vado”. Spesso non si tratta di un “no” diretto, sfrontato, ma subdolo. E il no da cui ci mette in guardia Gesu nel Vangelo, esortandoci a non fare come ai «giorni di Noe» (Mt 24,37). Che cosa accadde ai giorni di Noe? Accadde che, mentre qualcosa di nuovo e sconvolgente stava per arrivare, nessuno ci badava, perche tutti pensavano solo a mangiare e a bere (cfr v. 38). In altre parole, tutti riducevano la vita ai loro bisogni, si accontentavano di una vita piatta, orizzontale, senza slancio. Non c’era attesa di qualcuno, soltanto la pretesa di avere qualcosa per se, da consumare. Attesa del Signore che viene, e non pretesa di avere qualcosa da consumare noi. Questo e il consumismo. Il consumismo e un virus che intacca la fede alla radice, perche ti fa credere che la vita dipenda solo da quello che hai, e cosi ti dimentichi di Dio che ti viene incontro e di chi ti sta accanto. Il Signore viene, ma segui piuttosto gli appetiti che ti vengono; il fratello bussa alla tua porta, ma ti da fastidio perche disturba i tuoi piani – e questo e l’atteggiamento egoistico del consumismo. Nel Vangelo, quando Gesu segnala i pericoli per la fede, non si preoccupa dei nemici potenti, delle ostilita e delle persecuzioni. Tutto questo c’e stato, c’e e ci sara, ma non indebolisce la fede. Il vero pericolo, invece, e cio che anestetizza il cuore: e dipendere dai consumi, e lasciarsi appesantire e dissipare il cuore dai bisogni (cfr Lc 21,34). Allora si vive di cose e non si sa piu per cosa; si hanno tanti beni ma non si fa piu il bene; le case si riempiono di cose ma si svuotano di figli. Questo e il dramma di oggi: case pieni di cose ma vuote di figli, l’inverno demografico che stiamo soffrendo. Si butta via il tempo nei passatempi, ma non si ha tempo per Dio e per gli altri. E quando si vive per le cose, le cose non bastano mai, l’avidita cresce e gli altri diventano intralci nella corsa e cosi si finisce per sentirsi minacciati e, sempre insoddisfatti e arrabbiati, si alza il livello dell’odio. “Io voglio di piu, voglio di piu, voglio di piu…”. Lo vediamo oggi la dove il consumismo impera: quanta violenza, anche solo verbale, quanta rabbia e voglia di cercare un nemico a tutti i costi! Cosi, mentre il mondo e pieno di armi che provocano morti, non ci accorgiamo che continuiamo ad armare il cuore di rabbia. Da tutto questo Gesu vuole ridestarci. Lo fa con un verbo: «Vegliate» (Mt 24,42). “State attenti, vegliate”. Vegliare era il lavoro della sentinella, che vigilava restando sveglia mentre tutti dormivano. Vegliare e non cedere al sonno che avvolge tutti. Per poter vegliare occorre avere una speranza certa: che la notte non durera sempre, che presto arrivera l’alba. E cos1 anche per noi: Dio viene e la sua luce rischiarera pure le tenebre piu fitte. Ma a noi oggi tocca vigilare, vegliare: vincere la tentazione che il senso della vita e accumulare – questa e una tentazione, il senso della vita non e accumulare -, a noi tocca smascherare l’inganno che si e felici se si hanno tante cose, resistere alle luci abbaglianti dei consumi, che brilleranno ovunque in questo mese, e credere che la preghiera e la carita non sono tempo perso, ma i tesori piu grandi. Quando apriamo il cuore al Signore e ai fratelli, viene il bene prezioso che le cose non potranno mai darci e che Isaia annuncia nella prima Lettura, la pace: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzera piu la spada contro un’altra nazione, non impareranno piu l’arte della guerra» (Is 2,4). Sono parole che ci fanno pensare anche alla vostra patria. Oggi preghiamo per la pace, gravemente minacciata nell’Est del Paese, specialmente nei territori di Beni e di Minembwe, dove divampano i conflitti, alimentati anche da fuori, nel silenzio complice di tanti. Conflitti alimentati da coloro che si arricchiscono vendendo le armi. Oggi ricordate una figura bellissima, la Beata Marie-Clementine Anuarite Nengapeta, violentemente uccisa non prima di aver detto al suo carnefice, come Gesu: «Ti perdono, perche non sai quello che fai!». Chiediamo per sua intercessione che, in nome di Dio-Amore e con l’aiuto delle popolazioni vicine, si rinunci alle armi, per un futuro che non sia piu gli uni contro gli altri, ma gli uni con gli altri, e ci si converta da un’economia che si serve della guerra a un’economia che serva la pace. Papa Francesco: Chi ha orecchi per intendere Assemblea: Intenda Papa Francesco: Chi ha cuore per acconsentire Assemblea: Acconsenta

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI PARTECIPANTI AL XX CONGRESSO MONDIALE DELL’ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE DI DIRITTO PENALE

Il capitale finanziario globale è all’origine di gravi delitti non solo contro la proprietà ma anche contro le persone e l’ambiente. Si tratta di criminalità organizzata responsabile, tra l’altro, del sovra-indebitamento degli Stati e del saccheggio delle risorse naturali del nostro pianeta. Il diritto penale non può rimanere estraneo a condotte in cui, approfittando di situazioni asimmetriche, si sfrutta una posizione dominante a scapito del benessere collettivo. Questo succede, per esempio, quando si provoca la diminuzione artificiale dei prezzi dei titoli di debito pubblico, tramite la speculazione, senza preoccuparsi che ciò influenzi o aggravi la situazione economica di intere nazioni (cfr Oeconomicae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario, 17). Si tratta di delitti che hanno la gravità di crimini contro l’umanità, quando conducono alla fame, alla miseria, alla migrazione forzata e alla morte per malattie evitabili, al disastro ambientale e all’etnocidio dei popoli indigeni. La tutela giuridico-penale dell’ambiente È vero che la risposta penale arriva quando il delitto è stato commesso, che con essa non si ripara il danno né si previene la reiterazione e che di rado ha effetti dissuasivi. È vero pure che, per la sua selettività strutturale, la funzione sanzionatoria ricade solitamente sui settori più vulnerabili. Non ignoro neanche che c’è una corrente punitivista che pretende di risolvere attraverso il sistema penale i più svariati problemi sociali.

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO “CHILD DIGNITY IN THE DIGITAL WORLD”

(…) Il propagarsi della pornografia nel mondo digitale cresce in modo vertiginoso. Ciò è già di per sé un fatto molto grave, frutto di una perdita generale del senso della dignità umana e legato non di rado anche al traffico di persone. Il fenomeno è ancora più drammatico per il fatto che tale materiale è largamente accessibile anche ai minori via internet e soprattutto tramite i dispositivi mobili. La maggior parte degli studi scientifici concorda nel mettere in luce le pesanti conseguenze che ne derivano sulla psiche e sui comportamenti dei minori. Sono conseguenze che dureranno per tutta la loro vita, con fenomeni di grave dipendenza, propensione a comportamenti violenti, relazioni emotive e sessuali profondamente turbate. (…) (…) Il potenziale degli strumenti digitali è enorme ma le eventuali conseguenze negative del loro abuso nel campo del traffico di esseri umani, nell’organizzazione del terrorismo, nella diffusione dell’odio e dell’estremismo, nella manipolazione dell’informazione e – dobbiamo insistere – anche nell’ambito dell’abuso sui minori possono essere ugualmente notevoli (…)

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SALUTO DEL SANTO PADRE FRANCESCO ALLA DELEGAZIONE DELL’ESERCITO DELLA SALVEZZA

Signor Generale, cari fratelli e sorelle! Sono lieto di avere questa occasione per rinnovare a voi e a tutti i membri e volontari dell’Esercito della Salvezza il mio grato apprezzamento per la testimonianza che date al primato del discepolato e del servizio ai poveri. Questo vi rende un segno riconoscibile e credibile di amore evangelico, in obbedienza al comando del Signore: «Amatevi gli uni gli altri. Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli» (Gv 13,34). Come qualche volta ho ricordato – anche adesso, nel colloquio –, è stato incontrando dei membri dell’Esercito della Salvezza che ho ricevuto la mia prima lezione di ecumenismo da mia nonna, molti anni fa… ne avevo quattro! Il loro esempio di umile servizio agli ultimi tra i nostri fratelli e sorelle parla con più eloquenza di ogni parola. Mi viene in mente la saggia espressione del Suo predecessore, Signor Generale, quando ci siamo incontrati cinque anni fa: “La santità trascende le frontiere confessionali”. La santità che si manifesta in azioni concrete di bontà, di solidarietà e di guarigione parla al cuore e attesta l’autenticità del nostro discepolato. Su tale base, cattolici e membri dell’Esercito della Salvezza possono aiutarsi a vicenda e collaborare sempre di più con rispetto reciproco, anche nella vita di santità. Tale testimonianza comune è come il lievito che, nella parabola di Gesù, una donna ha preso e mescolato con la farina fino a quando l’intero impasto è stato lievitato (cfr Lc 13,21). L’amore gratuito che ispira i gesti di servizio verso i bisognosi non è solo il lievito, ma anche la fragranza del pane appena sfornato. Attira e convince. I giovani in particolare hanno bisogno di sentire questa fragranza, perché in molti casi essa manca nella loro esperienza quotidiana. In un mondo in cui egoismi e divisioni abbondano, è proprio il gusto nobile dell’amore incondizionato che serve come antidoto e apre la strada al significato trascendente della nostra esistenza. Come Vescovo di Roma, di questa diocesi, desidero ringraziare l’Esercito della Salvezza anche per quello che sta facendo in questa città in favore delle persone senzatetto ed emarginate; ce ne sono tante a Roma, tante. E conosco anche il vostro ampio coinvolgimento nella lotta contro la tratta di esseri umani e altre forme attuali di schiavitù. Dio benedica questo vostro impegno! Grazie ancora per la vostra visita. Ricordiamoci a vicenda nella preghiera, e continuiamo a lavorare nel diffondere l’amore di Dio attraverso opere di servizio e di solidarie.

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI PARTECIPANTI ALL’INCONTRO DEL SEGRETARIATO PER LA GIUSTIZIA SOCIALE E L’ECOLOGIA DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Alcuni tra voi, e molti altri gesuiti che vi hanno preceduto, hanno avviato opere di servizio ai più poveri, opere di educazione, di attenzione ai rifugiati, di difesa dei diritti umani e di servizi sociali in molteplici campi. Continuate con questo impegno creativo, sempre bisognoso di rinnovamento in una società dai cambiamenti accelerati. Aiutate la Chiesa nel discernimento che oggi dobbiamo compiere anche sui nostri apostolati. Non smettete di collaborare in rete tra voi e con altre organizzazioni ecclesiali e civili per avere una parola in difesa dei più bisognosi in questo mondo sempre più globalizzato. Con questa globalizzazione che è sferica, che annulla le identità culturali, le identità religiose, le identità personali, tutto è uguale. La vera globalizzazione deve essere poliedrica. Unirci, ma conservando ognuno la propria peculiarità. Nel dolore dei nostri fratelli e della nostra casa comune minacciata è necessario contemplare il mistero del crocifisso per essere capaci di dare la vita fino alla fine, come fecero tanti compagni gesuiti a partire dal 1975. Quest’anno celebriamo il 30° anniversario del martirio dei gesuiti della Universidad Centroamericana di El Salvador, che tanto dolore causò a padre Kolvenbach e che lo spinse a chiedere l’aiuto di gesuiti in tutta la Compagnia. Molti risposero generosamente. La vita e la morte dei martiri sono un incoraggiamento al nostro servizio agli ultimi.

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PAPA FRANCESCO ANGELUS

E il mio pensiero va ancora una volta al Medio Oriente. In particolare, all’amata e martoriata Siria da dove giungono nuovamente notizie drammatiche sulla sorte delle popolazioni del nord-est del Paese, costrette ad abbandonare le proprie case a causa delle azioni militari: tra queste popolazioni vi sono anche molte famiglie cristiane. A tutti gli attori coinvolti e anche alla Comunità Internazionale; per favore, rinnovo l’appello ad impegnarsi con sincerità, con onestà e trasparenza sulla strada del dialogo per cercare soluzioni efficaci. Insieme a tutti i membri del Sinodo dei Vescovi per la Regione Panamazzonica, specialmente a quelli provenienti dall’Ecuador, seguo con preoccupazione quanto sta accadendo nelle ultime settimane in quel Paese. Lo affido alla preghiera comune e all’intercessione dei nuovi Santi, e mi unisco al dolore per i morti, i feriti e i dispersi. Incoraggio a cercare la pace sociale, con particolare attenzione alle popolazioni più vulnerabili, ai poveri e ai diritti umani.

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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA 105ma GIORNATA MONDIALE DEL MIGRANTE E DEL RIFUGIATO 2019

Cari fratelli e sorelle, la fede ci assicura che il Regno di Dio è già presente sulla terra in modo misterioso (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Gaudium et spes, 39); tuttavia, anche ai nostri giorni, dobbiamo con dolore constatare che esso incontra ostacoli e forze contrarie. Conflitti violenti e vere e proprie guerre non cessano di lacerare l’umanità; ingiustizie e discriminazioni si susseguono; si stenta a superare gli squilibri economici e sociali, su scala locale o globale. E a fare le spese di tutto questo sono soprattutto i più poveri e svantaggiati. Le società economicamente più avanzate sviluppano al proprio interno la tendenza a un accentuato individualismo che, unito alla mentalità utilitaristica e moltiplicato dalla rete mediatica, produce la “globalizzazione dell’indifferenza”. In questo scenario, i migranti, i rifugiati, gli sfollati e le vittime della tratta sono diventati emblema dell’esclusione perché, oltre ai disagi che la loro condizione di per sé comporta, sono spesso caricati di un giudizio negativo che li considera come causa dei mali sociali. L’atteggiamento nei loro confronti rappresenta un campanello di allarme che avvisa del declino morale a cui si va incontro se si continua a concedere terreno alla cultura dello scarto. Infatti, su questa via, ogni soggetto che non rientra nei canoni del benessere fisico, psichico e sociale diventa a rischio di emarginazione e di esclusione. Per questo, la presenza dei migranti e dei rifugiati – come, in generale, delle persone vulnerabili – rappresenta oggi un invito a recuperare alcune dimensioni essenziali della nostra esistenza cristiana e della nostra umanità, che rischiano di assopirsi in un tenore di vita ricco di comodità. Ecco perché “non si tratta solo di migranti”, vale a dire: interessandoci di loro ci interessiamo anche di noi, di tutti; prendendoci cura di loro, cresciamo tutti; ascoltando loro, diamo voce anche a quella parte di noi che forse teniamo nascosta perché oggi non è ben vista. «Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14,27). Non si tratta solo di migranti: si tratta anche delle nostre paure. Le cattiverie e le brutture del nostro tempo accrescono «il nostro timore verso gli “altri”, gli sconosciuti, gli emarginati, i forestieri […]. E questo si nota particolarmente oggi, di fronte all’arrivo di migranti e rifugiati che bussano alla nostra porta in cerca di protezione, di sicurezza e di un futuro migliore. È vero, il timore è legittimo, anche perché manca la preparazione a questo incontro» (Omelia, Sacrofano, 15 febbraio 2019). Il problema non è il fatto di avere dubbi e timori. Il problema è quando questi condizionano il nostro modo di pensare e di agire al punto da renderci intolleranti, chiusi, forse anche – senza accorgercene – razzisti. E così la paura ci priva del desiderio e della capacità di incontrare l’altro, la persona diversa da me; mi priva di un’occasione di incontro col Signore (cfr Omelia nella Messa per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, 14 gennaio 2018). «Se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?» (Mt 5,46). Non si tratta solo di migranti: si tratta della carità. Attraverso le opere di carità dimostriamo la nostra fede (cfr Gc 2,18). E la carità più alta è quella che si esercita verso chi non è in grado di ricambiare e forse nemmeno di ringraziare. «Ciò che è in gioco è il volto che vogliamo darci come società e il valore di ogni vita. […] Il progresso dei nostri popoli […] dipende soprattutto dalla capacità di lasciarsi smuovere e commuovere da chi bussa alla porta e col suo sguardo scredita ed esautora tutti i falsi idoli che ipotecano e schiavizzano la vita; idoli che promettono una felicità illusoria ed effimera, costruita al margine della realtà e della sofferenza degli altri» (Discorso presso la Caritas Diocesana di Rabat, 30 marzo 2019). «Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione» (Lc 10,33). Non si tratta solo di migranti: si tratta della nostra umanità. Ciò che spinge quel Samaritano – uno straniero rispetto ai giudei – a fermarsi è la compassione, un sentimento che non si spiega solo a livello razionale. La compassione tocca le corde più sensibili della nostra umanità, provocando un’impellente spinta a “farsi prossimo” di chi vediamo in difficoltà. Come Gesù stesso ci insegna (cfr Mt 9,35-36; 14,13-14; 15,32-37), avere compassione significa riconoscere la sofferenza dell’altro e passare subito all’azione per lenire, curare e salvare. Avere compassione significa dare spazio alla tenerezza, che invece la società odierna tante volte ci chiede di reprimere. «Aprirsi agli altri non impoverisce, ma arricchisce, perché aiuta ad essere più umani: a riconoscersi parte attiva di un insieme più grande e a interpretare la vita come un dono per gli altri; a vedere come traguardo non i propri interessi, ma il bene dell’umanità» (Discorso nella Moschea “Heydar Aliyev”di Baku, Azerbaijan, 2 ottobre 2016). «Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli» (Mt 18,10). Non si tratta solo di migranti: si tratta di non escludere nessuno. Il mondo odierno è ogni giorno più elitista e crudele con gli esclusi. I Paesi in via di sviluppo continuano ad essere depauperati delle loro migliori risorse naturali e umane a beneficio di pochi mercati privilegiati. Le guerre interessano solo alcune regioni del mondo, ma le armi per farle vengono prodotte e vendute in altre regioni, le quali poi non vogliono farsi carico dei rifugiati prodotti da tali conflitti. Chi ne fa le spese sono sempre i piccoli, i poveri, i più vulnerabili, ai quali si impedisce di sedersi a tavola e si lasciano le “briciole” del banchetto (cfr Lc16,19-21). «La Chiesa “in uscita” […] sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 24). Lo sviluppo esclusivista rende i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. Lo sviluppo vero è quello che si propone di includere tutti gli uomini e le donne del mondo, promuovendo la loro crescita integrale, e si preoccupa anche delle generazioni future. «Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,43-44). Non si tratta solo di migranti: si tratta di mettere gli ultimi al primo posto. Gesù Cristo ci chiede di non cedere alla logica del mondo, che giustifica la prevaricazione sugli altri per il mio tornaconto personale o quello del mio gruppo: prima io e poi gli altri! Invece il vero motto del cristiano è “prima gli ultimi!”. «Uno spirito individualista è terreno fertile per il maturare di quel senso di indifferenza verso il prossimo, che porta a trattarlo come mero oggetto di compravendita, che spinge a disinteressarsi dell’umanità degli altri e finisce per rendere le persone pavide e ciniche. Non sono forse questi i sentimenti che spesso abbiamo di fronte ai poveri, agli emarginati, agli ultimi della società? E quanti ultimi abbiamo nelle nostre società! Tra questi, penso soprattutto ai migranti, con il loro carico di difficoltà e sofferenze, che affrontano ogni giorno nella ricerca, talvolta disperata, di un luogo ove vivere in pace e con dignità» (Discorso al Corpo Diplomatico, 11 gennaio 2016). Nella logica del Vangelo gli ultimi vengono prima, e noi dobbiamo metterci a loro servizio. «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Non si tratta solo di migranti: si tratta di tutta la persona, di tutte le persone. In questa affermazione di Gesù troviamo il cuore della sua missione: far sì che tutti ricevano il dono della vita in pienezza, secondo la volontà del Padre. In ogni attività politica, in ogni programma, in ogni azione pastorale dobbiamo sempre mettere al centro la persona, nelle sue molteplici dimensioni, compresa quella spirituale. E questo vale per tutte le persone, alle quali va riconosciuta la fondamentale uguaglianza. Pertanto, «lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (S. Paolo VI, Enc. Populorum progressio, 14). «Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19). Non si tratta solo di migranti: si tratta di costruire la città di Dio e dell’uomo. In questa nostra epoca, chiamata anche l’era delle migrazioni, sono molte le persone innocenti che cadono vittime del “grande inganno” dello sviluppo tecnologico e consumistico senza limiti (cfr Enc. Laudato si’, 34). E così si mettono in viaggio verso un “paradiso” che inesorabilmente tradisce le loro aspettative. La loro presenza, a volte scomoda, contribuisce a sfatare i miti di un progresso riservato a pochi, ma costruito sullo sfruttamento di molti. «Si tratta, allora, di vedere noi per primi e di aiutare gli altri a vedere nel migrante e nel rifugiato non solo un problema da affrontare, ma un fratello e una sorella da accogliere, rispettare e amare, un’occasione che la Provvidenza ci offre per contribuire alla costruzione di una società più giusta, una democrazia più compiuta, un Paese più solidale, un mondo più fraterno e una comunità cristiana più aperta, secondo il Vangelo» (Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2014). Cari fratelli e sorelle, la risposta alla sfida posta dalle migrazioni contemporanee si può riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Ma questi verbi non valgono solo per i migranti e i rifugiati. Essi esprimono la missione della Chiesa verso tutti gli abitanti delle periferie esistenziali, che devono essere accolti, protetti, promossi e integrati. Se mettiamo in pratica questi verbi, contribuiamo a costruire la città di Dio e dell’uomo, promuoviamo lo sviluppo umano integrale di tutte le persone e aiutiamo anche la comunità mondiale ad avvicinarsi agli obiettivi di sviluppo sostenibile che si è data e che, altrimenti, saranno difficilmente raggiunti. Dunque, non è in gioco solo la causa dei migranti, non è solo di loro che si tratta, ma di tutti noi, del presente e del futuro della famiglia umana. I migranti, e specialmente quelli più vulnerabili, ci aiutano a leggere i “segni dei tempi”. Attraverso di loro il Signore ci chiama a una conversione, a liberarci dagli esclusivismi, dall’indifferenza e dalla cultura dello scarto. Attraverso di loro il Signore ci invita a riappropriarci della nostra vita cristiana nella sua interezza e a contribuire, ciascuno secondo la propria vocazione, alla costruzione di un mondo sempre più rispondente al progetto di Dio. È questo l’auspicio che accompagno con la preghiera invocando, per intercessione della Vergine Maria, Madonna della Strada, abbondanti benedizioni su tutti i migranti e i rifugiati del mondo e su coloro che si fanno loro compagni di viaggio.

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PAPA FRANCESCO ANGELUS

Dopo l’Angelus Cari fratelli e sorelle, domani ricorre il 70° anniversario delle Convenzioni di Ginevra, importanti strumenti giuridici internazionali che impongono limiti all’uso della forza e sono volti alla protezione di civili e prigionieri in tempo di guerra. Possa questa ricorrenza rendere gli Stati sempre più consapevoli della necessità imprescindibile di tutelare la vita e la dignità delle vittime dei conflitti armati. Tutti sono tenuti a osservare i limiti imposti dal diritto internazionale umanitario, proteggendo le popolazioni inermi e le strutture civili, specialmente ospedali, scuole, luoghi di culto, campi-profughi. E non dimentichiamo che la guerra e il terrorismo sono sempre una grave perdita per l’intera umanità. Sono la grande sconfitta umana!