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CELEBRAZIONE MATTUTINA TRASMESSA IN DIRETTA DALLA CAPPELLA DI CASA SANTA MARTA OMELIA

[…] Nella storia abbiamo letto le brutalità che facevano con gli schiavi: li
portavano dall’Africa in America – penso a quella storia che tocca la mia terra – e
noi diciamo: “Quanta barbarie!”. Ma anche oggi ci sono tanti schiavi, tanti uomini
e donne che non sono liberi di lavorare: sono costretti a lavorare per
sopravvivere, niente di più. Sono schiavi: i lavori forzati… Ci sono lavori forzati,
ingiusti, malpagati e che portano l’uomo a vivere con la dignità calpestata. Sono
tanti, tanti nel mondo. Tanti. Nei giornali alcuni mesi fa abbiamo letto, in un
Paese dell’Asia, come un signore aveva ucciso a bastonate un suo dipendente
che guadagnava meno di mezzo dollaro al giorno, perché aveva fatto male una
cosa. La schiavitù di oggi è la nostra “in-dignità”, perché toglie la dignità
all’uomo, alla donna, a tutti noi. “No, io lavoro, io ho la mia dignità”. Sì, ma i tuoi
fratelli, no. “Sì, Padre, è vero, ma questo, siccome è tanto lontano, a me fa fatica
capirlo. Ma qui da noi…”. Anche qui, da noi. Qui, da noi. Pensa ai lavoratori, ai
giornalieri, che tu fai lavorare per una retribuzione minima e non otto, ma dodici,
quattordici ore al giorno: questo succede oggi, qui. In tutto il mondo, ma anche
qui. Pensa alla domestica che non ha retribuzione giusta, che non ha assistenza
sociale di sicurezza, che non ha capacità di pensione: questo non succede in Asia
soltanto. […]

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PAPA FRANCESCO LETTERA AI MOVIMENTI POPOLARI

Cari amici,
Ricordo spesso i nostri incontri: due in Vaticano e uno a Santa Cruz de La Sierra,
e confesso che questa “memoria” mi fa bene, mi avvicina a voi, mi fa ripensare
ai tanti dialoghi avvenuti durante quegli incontri, ai tanti sogni che lì sono nati e
cresciuti, molti dei quali sono poi diventati realtà. Ora, in mezzo a questa
pandemia, vi ricordo nuovamente in modo speciale e desidero starvi vicino.
In questi giorni, pieni di difficoltà e di angoscia profonda, molti hanno fatto
riferimento alla pandemia da cui siamo colpiti ricorrendo a metafore belliche. Se
la lotta contro la COVID-19 è una guerra, allora voi siete un vero esercito
invisibile che combatte nelle trincee più pericolose. Un esercito che non ha altre
armi se non la solidarietà, la speranza e il senso di comunità che rifioriscono in
questi giorni in cui nessuno si salva da solo. Come vi ho detto nei nostri incontri,
voi siete per me dei veri “poeti sociali”, che dalle periferie dimenticate creano
soluzioni dignitose per i problemi più scottanti degli esclusi.
So che molte volte non ricevete il riconoscimento che meritate perché per il
sistema vigente siete veramente invisibili. Le soluzioni propugnate dal mercato
non raggiungono le periferie, dove è scarsa anche l’azione di protezione dello
Stato. E voi non avete le risorse per svolgere la sua funzione. Siete guardati con
diffidenza perché andate al di là della mera filantropia mediante l’organizzazione
comunitaria o perché rivendicate i vostri diritti invece di rassegnarvi ad aspettare
di raccogliere qualche briciola caduta dalla tavola di chi detiene il potere
economico. Spesso provate rabbia e impotenza di fronte al persistere delle
disuguaglianze persino quando vengono meno tutte le scuse per mantenere i
privilegi. Tuttavia, non vi autocommiserate, ma vi rimboccate le maniche e
continuate a lavorare per le vostre famiglie, per i vostri quartieri, per il bene
comune. Questo vostro atteggiamento mi aiuta, mi mette in questione ed è di
grande insegnamento per me.
Penso alle persone, soprattutto alle donne, che moltiplicano il cibo nelle mense
popolari cucinando con due cipolle e un pacchetto di riso un delizioso stufato per
centinaia di bambini, penso ai malati e agli anziani. Non compaiono mai nei mass
media, al pari dei contadini e dei piccoli agricoltori che continuano a coltivare la
terra per produrre cibo senza distruggere la natura, senza accaparrarsene i frutti
o speculare sui bisogni vitali della gente. Vorrei che sapeste che il nostro Padre
celeste vi guarda, vi apprezza, vi riconosce e vi sostiene nella vostra scelta.
Quanto è difficile rimanere a casa per chi vive in una piccola abitazione precaria
o per chi addirittura un tetto non ce l’ha. Quanto è difficile per i migranti, per le
persone private della libertà o per coloro che si stanno liberando di una
dipendenza. Voi siete lì, presenti fisicamente accanto a loro, per rendere le cose
meno difficili e meno dolorose. Me ne congratulo e vi ringrazio di cuore. Spero
che i governi comprendano che i paradigmi tecnocratici (che mettono al centro lo
Stato o il mercato) non sono sufficienti per affrontare questa crisi o gli altri
grandi problemi dell’umanità. Ora più che mai, sono le persone, le comunità e i
popoli che devono essere al centro, uniti per guarire, per curare e per
condividere.
So che siete stati esclusi dai benefici della globalizzazione. Non godete di quei
piaceri superficiali che anestetizzano tante coscienze, eppure siete costretti a
subirne i danni. I mali che affliggono tutti vi colpiscono doppiamente. Molti di voi
vivono giorno per giorno senza alcuna garanzia legale che li protegga: venditori
ambulanti, raccoglitori, giostrai, piccoli contadini, muratori, sarti, quanti
svolgono diversi compiti assistenziali. Voi, lavoratori precari, indipendenti, del
settore informale o dell’economia popolare, non avete uno stipendio stabile per
resistere a questo momento… e la quarantena vi risulta insopportabile. Forse è
giunto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale di base che
riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili compiti che svolgete; un salario
che sia in grado di garantire e realizzare quello slogan così umano e cristiano:
nessun lavoratore senza diritti.
Vorrei inoltre invitarvi a pensare al “dopo”, perché questa tempesta finirà e le
sue gravi conseguenze si stanno già facendo sentire. Voi non siete dilettanti allo
sbaraglio, avete una cultura, una metodologia, ma soprattutto quella saggezza
che cresce grazie a un lievito particolare, la capacità di sentire come proprio il
dolore dell’altro. Voglio che pensiamo al progetto di sviluppo umano integrale a
cui aneliamo, che si fonda sul protagonismo dei popoli in tutta la loro diversità, e
sull’accesso universale a quelle tre T per cui lottate: tierra, techo e trabajo (terra
– compresi i suoi frutti, cioè il cibo –, casa e lavoro). Spero che questo momento
di pericolo ci faccia riprendere il controllo della nostra vita, scuota le nostre
coscienze addormentate e produca una conversione umana ed ecologica che
ponga fine all’idolatria del denaro e metta al centro la dignità e la vita. La nostra
civiltà, così competitiva e individualista, con i suoi frenetici ritmi di produzione e
di consumo, i suoi lussi eccessivi e gli smisurati profitti per pochi, ha bisogno di
un cambiamento, di un ripensamento, di una rigenerazione. Voi siete i costruttori
indispensabili di questo cambiamento ormai improrogabile; ma soprattutto voi
disponete di una voce autorevole per testimoniare che questo è possibile.
Conoscete infatti le crisi e le privazioni… che con pudore, dignità, impegno,
sforzo e solidarietà riuscite a trasformare in promessa di vita per le vostre
famiglie e comunità.
Continuate a lottare e a prendervi cura l’uno dell’altro come fratelli. Prego per
voi, prego con voi e chiedo a Dio nostro Padre di benedirvi, di colmarvi del suo
amore, e di proteggervi lungo il cammino, dandovi quella forza che ci permette
di non cadere e che non delude: la speranza. Per favore, anche voi pregate per
me, che ne ho bisogno.

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PAPA FRANCESCO UDIENZA GENERALE

[…] In questo momento, vorrei rivolgermi a tutti gli ammalati che hanno il virus e che soffrono la malattia, e ai tanti che soffrono incertezze sulle proprie malattie. Ringrazio di cuore il personale ospedaliero, i medici, le infermiere e gli infermieri, i volontari che in questo momento tanto difficile sono accanto alle persone che soffrono. Ringrazio tutti i cristiani, tutti gli uomini e le donne di buona volontà che pregano per questo momento, tutti uniti, qualsiasi sia la tradizione religiosa alla quale appartengono. Grazie di cuore per questo sforzo. Ma non vorrei che questo dolore, questa epidemia tanto forte ci faccia dimenticare i poveri siriani, che stanno soffrendo al confine tra Grecia e Turchia: un popolo sofferente da anni. Devono fuggire dalla guerra, dalla fame, dalle malattie. Non dimentichiamo i fratelli e le sorelle, tanti bambini, che stanno soffrendo lì. […]

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PAPA FRANCESCO ANGELUS Piazza San Pietro (Biblioteca del Palazzo Apostolico)

Dopo l’Angelus […] Saluto le Associazioni e i gruppi che si impegnano in solidarietà con il popolo siriano e specialmente con gli abitanti della città di Idlib e del nord-ovest della Siria – vi sto vedendo qui – costretti a fuggire dai recenti sviluppi della guerra. Cari fratelli e sorelle, rinnovo la mia grande apprensione, il mio dolore per questa situazione disumana di queste persone inermi, tra cui tanti bambini, che stanno rischiando la vita. Non si deve distogliere lo sguardo di fronte a questa crisi umanitaria, ma darle priorità rispetto ad ogni altro interesse. Preghiamo per questa gente, questi fratelli e sorelle nostri, che soffrono tanto al nord-ovest della Siria, nella città di Idlib. […]

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PAPA FRANCESCO ANGELUS

Dopo l’Angelus […] Sono un po’ rattristato per le notizie che arrivano di tanti sfollati, tanti uomini, donne, bambini cacciati via a causa della guerra, tanti migranti che chiedono rifugio nel mondo, e aiuto. In questi giorni, la cosa è diventata molto forte. Preghiamo per loro. […]

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VISITA DEL SANTO PADRE FRANCESCO A BARI IN OCCASIONE DELL’INCONTRO DI RIFLESSIONE E SPIRITUALITÀ “MEDITERRANEO FRONTIERA DI PACE” INCONTRO CON I VESCOVI DEL MEDITERRANEO DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Cari fratelli, sono lieto di incontrarvi e grato ad ognuno di voi per avere accettato l’invito della Conferenza Episcopale Italiana a partecipare a questo incontro che riunisce le Chiese del Mediterraneo. E guardando oggi questa chiesa [la Basilica di San Nicola], mi viene in mente l’altro incontro, quello che abbiamo avuto con i capi delle Chiese cristiane – ortodosse, cattoliche… – qui a Bari. È la seconda volta in pochi mesi che si fa un gesto di unità così: quella era la prima volta, dopo il grande scisma, che eravamo tutti insieme; e questa è una prima volta di tutti i vescovi che si affacciano sul Mediterraneo. Credo che potremmo chiamare Bari la capitale dell’unità, dell’unità della Chiesa – se Monsignor Cacucci lo permette! Grazie dell’accoglienza, Eccellenza, grazie. Quando, a suo tempo, il Cardinale Bassetti mi presentò l’iniziativa, la accolsi subito con gioia, intravedendo in essa la possibilità di avviare un processo di ascolto e di confronto, con cui contribuire all’edificazione della pace in questa zona cruciale del mondo. Per tale ragione ho voluto essere presente e testimoniare il valore contenuto nel nuovo paradigma di fraternità e collegialità, di cui voi siete espressione. Mi è piaciuta quella parola che voi avete aggiunto al dialogo: convivialità. Trovo significativa la scelta di tenere questo incontro nella città di Bari, così importante per i legami che intrattiene con il Medio Oriente come con il continente africano, segno eloquente di quanto radicate siano le relazioni tra popoli e tradizioni diverse. La diocesi di Bari, poi, da sempre tiene vivo il dialogo ecumenico e interreligioso, adoperandosi instancabilmente a stabilire legami di reciproca stima e di fratellanza. Non è un caso se proprio qui, un anno e mezzo fa – come ho detto – ho scelto di incontrare i responsabili delle comunità cristiane del Medio Oriente, per un importante momento di confronto e comunione, che aiutasse Chiese sorelle a camminare insieme e sentirsi più vicine. In questo particolare contesto, vi siete riuniti per riflettere sulla vocazione e le sorti del Mediterraneo, sulla trasmissione della fede e la promozione della pace. Il Mare nostrum è il luogo fisico e spirituale nel quale ha preso forma la nostra civiltà, come risultato dell’incontro di popoli diversi. Proprio in virtù della sua conformazione, questo mare obbliga i popoli e le culture che vi si affacciano a una costante prossimità, invitandoli a fare memoria di ciò che li accomuna e a rammentare che solo vivendo nella concordia possono godere delle opportunità che questa regione offre dal punto di vista delle risorse, della bellezza del territorio, delle varie tradizioni umane. Ai nostri giorni, l’importanza di tale area non è diminuita in seguito alle dinamiche determinate dalla globalizzazione; al contrario, quest’ultima ha accentuato il ruolo del Mediterraneo, quale crocevia di interessi e vicende significative dal punto di vista sociale, politico, religioso ed economico. Il Mediterraneo rimane una zona strategica, il cui equilibrio riflette i suoi effetti anche sulle altre parti del mondo. Si può dire che le sue dimensioni siano inversamente proporzionali alla sua grandezza, la quale porta a paragonarlo, più che a un oceano, a un lago, come già fece Giorgio La Pira. Definendolo “il grande lago di Tiberiade”, egli suggerì un’analogia tra il tempo di Gesù e il nostro, tra l’ambiente in cui Lui si muoveva e quello in cui vivono i popoli che oggi lo abitano. E come Gesù operò in un contesto eterogeneo di culture e credenze, così noi ci collochiamo in un quadro poliedrico e multiforme, lacerato da divisioni e diseguaglianze, che ne aumentano l’instabilità. In questo epicentro di profonde linee di rottura e di conflitti economici, religiosi, confessionali e politici, siamo chiamati a offrire la nostra testimonianza di unità e di pace. Lo facciamo a partire dalla nostra fede e dall’appartenenza alla Chiesa, chiedendoci quale sia il contributo che, come discepoli del Signore, possiamo offrire a tutti gli uomini e le donne dell’area mediterranea. La trasmissione della fede non può che trarre frutto dal patrimonio di cui il Mediterraneo è depositario. È un patrimonio custodito dalle comunità cristiane, reso vivo mediante la catechesi e la celebrazione dei sacramenti, la formazione delle coscienze e l’ascolto personale e comunitario della Parola del Signore. In particolare, nella pietà popolare l’esperienza cristiana trova un’espressione tanto significativa quanto irrinunciabile: davvero la devozione del popolo è, per lo più, espressione di fede semplice e genuina. E su questo mi piace citare spesso quel gioiello che è il numero 48 dell’ Evangelii nuntiandi sulla pietà popolare, dove San Paolo VI cambia il nome di “religiosità” in “pietà”, e dove sono presentate le sue ricchezze e anche le sue mancanze. Quel numero deve essere di guida nel nostro annuncio del Vangelo ai popoli. In quest’area, un deposito di enorme potenzialità è anche quello artistico, che unisce i contenuti della fede alla ricchezza delle culture, alla bellezza delle opere d’arte. È un patrimonio che attrae continuamente milioni di visitatori da tutto il mondo e che va custodito con cura, quale preziosa eredità ricevuta “in prestito” e da consegnare alle generazioni future. Su questo sfondo l’annuncio del Vangelo non può disgiungersi dall’impegno per il bene comune e ci spinge ad agire come instancabili operatori di pace. Oggi l’area del Mediterraneo è insidiata da tanti focolai di instabilità e di guerra, sia nel Medio Oriente, sia in vari Stati del nord Africa, come pure tra diverse etnie o gruppi religiosi e confessionali; né possiamo dimenticare il conflitto ancora irrisolto tra israeliani e palestinesi, con il pericolo di soluzioni non eque e, quindi, foriere di nuove crisi. La guerra, che orienta le risorse all’acquisto di armi e allo sforzo militare, distogliendole dalle funzioni vitali di una società, quali il sostegno alle famiglie, alla sanità e all’istruzione, è contraria alla ragione, secondo l’insegnamento di san Giovanni XXIII (cfr Enc. Pacem in terris, 62; 67). In altre parole, essa è una follia, perché è folle distruggere case, ponti, fabbriche, ospedali, uccidere persone e annientare risorse anziché costruire relazioni umane ed economiche. È una pazzia alla quale non ci possiamo rassegnare: mai la guerra potrà essere scambiata per normalità o accettata come via ineluttabile per regolare divergenze e interessi contrapposti. Mai. Il fine ultimo di ogni società umana rimane la pace, tanto che si può ribadire che «non c’è alternativa alla pace, per nessuno». Non c’è alcuna alternativa sensata alla pace, perché ogni progetto di sfruttamento e supremazia abbruttisce chi colpisce e chi ne è colpito, e rivela una concezione miope della realtà, dato che priva del futuro non solo l’altro, ma anche se stessi. La guerra appare così come il fallimento di ogni progetto umano e divino: basta visitare un paesaggio o una città, teatri di un conflitto, per accorgersi come, a causa dell’odio, il giardino si trasformi in una terra desolata e inospitale e il paradiso terrestre in un inferno. E a questo io vorrei aggiungere il grave peccato di ipocrisia, quando nei convegni internazionali, nelle riunioni, tanti Paesi parlano di pace e poi vendono le armi ai Paesi che sono in guerra. Questo si chiama la grande ipocrisia. La costruzione della pace, che la Chiesa e ogni istituzione civile devono sempre sentire come priorità, ha come presupposto indispensabile la giustizia. Essa è calpestata dove sono ignorate le esigenze delle persone e dove gli interessi economici di parte prevalgono sui diritti dei singoli e della comunità. La giustizia è ostacolata, inoltre, dalla cultura dello scarto, che tratta le persone come fossero cose, e che genera e accresce le diseguaglianze, così che in modo stridente sulle sponde dello stesso mare vivono società dell’abbondanza e altre in cui molti lottano per la sopravvivenza. A contrastare tale cultura contribuiscono in maniera decisiva le innumerevoli opere di carità, di educazione e di formazione attuate dalle comunità cristiane. E ogni volta che le diocesi, le parrocchie, le associazioni, il volontariato – il volontariato è uno dei grandi tesori della pastorale italiana – o i singoli si adoperano per sostenere chi è abbandonato o nel bisogno, il Vangelo acquista nuova forza di attrazione. Nel perseguire il bene comune – che è un altro nome della pace – è da assumere il criterio indicato dallo stesso La Pira: lasciarsi guidare dalle «attese della povera gente». Tale principio, che non è mai accantonabile in base a calcoli o a ragioni di convenienza, se assunto in modo serio, permette una svolta antropologica radicale, che rende tutti più umani. A cosa serve, del resto, una società che raggiunge sempre nuovi risultati tecnologici, ma che diventa meno solidale verso chi è nel bisogno? Con l’annuncio evangelico, noi trasmettiamo invece la logica per la quale non ci sono ultimi e ci sforziamo affinché la Chiesa, le Chiese, mediante un impegno sempre più attivo, sia segno dell’attenzione privilegiata per i piccoli e i poveri, perché «quelle membra del corpo che sembrano più deboli, sono più necessarie» (1 Cor 12,22) e, «se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26). Tra coloro che nell’area del Mediterraneo più faticano, vi sono quanti fuggono dalla guerra o lasciano la loro terra in cerca di una vita degna dell’uomo. Il numero di questi fratelli – costretti ad abbandonare affetti e patria e ad esporsi a condizioni di estrema precarietà – è andato aumentando a causa dell’incremento dei conflitti e delle drammatiche condizioni climatiche e ambientali di zone sempre più ampie. È facile prevedere che tale fenomeno, con le sue dinamiche epocali, segnerà la regione mediterranea, per cui gli Stati e le stesse comunità religiose non possono farsi trovare impreparati. Sono interessati i Paesi attraversati dai flussi migratori e quelli di destinazione finale, ma lo sono anche i Governi e le Chiese degli Stati di provenienza dei migranti, che con la partenza di tanti giovani vedono depauperarsi il loro futuro. Siamo consapevoli che in diversi contesti sociali è diffuso un senso di indifferenza e perfino di rifiuto, che fa pensare all’atteggiamento, stigmatizzato in molte parabole evangeliche, di quanti si chiudono nella propria ricchezza e autonomia, senza accorgersi di chi, con le parole o semplicemente con il suo stato di indigenza, sta invocando aiuto. Si fa strada un senso di paura, che porta ad alzare le proprie difese davanti a quella che viene strumentalmente dipinta come un’invasione. La retorica dello scontro di civiltà serve solo a giustificare la violenza e ad alimentare l’odio. L’inadempienza o, comunque, la debolezza della politica e il settarismo sono cause di radicalismi e terrorismo. La comunità internazionale si è fermata agli interventi militari, mentre dovrebbe costruire istituzioni che garantiscano uguali opportunità e luoghi nei quali i cittadini abbiano la possibilità di farsi carico del bene comune. A nostra volta, fratelli, alziamo la voce per chiedere ai Governi la tutela delle minoranze e della libertà religiosa. La persecuzione di cui sono vittime soprattutto – ma non solo – le comunità cristiane è una ferita che lacera il nostro cuore e non ci può lasciare indifferenti. Nel contempo, non accettiamo mai che chi cerca speranza per mare muoia senza ricevere soccorso o che chi giunge da lontano diventi vittima di sfruttamento sessuale, sia sottopagato o assoldato dalle mafie. Certo, l’accoglienza e una dignitosa integrazione sono tappe di un processo non facile; tuttavia, è impensabile poterlo affrontare innalzando muri. A me fa paura quando ascolto qualche discorso di alcuni leader delle nuove forme di populismo, e mi fa sentire discorsi che seminavano paura e poi odio nel decennio ’30 del secolo scorso. Questo processo di accoglienza e dignitosa integrazione è impensabile, ho detto, poterlo affrontare innalzando muri. In tale modo, piuttosto, ci si preclude l’accesso alla ricchezza di cui l’altro è portatore e che costituisce sempre un’occasione di crescita. Quando si rinnega il desiderio di comunione, inscritto nel cuore dell’uomo e nella storia dei popoli, si contrasta il processo di unificazione della famiglia umana, che già si fa strada tra mille avversità. La settimana scorsa, un artista torinese mi ha inviato un quadretto, fatto con la tecnica del bruciato sopra il legno, sulla fuga in Egitto e c’era un San Giuseppe, non così tranquillo come siamo abituati a vederlo nelle immaginette, ma un San Giuseppe con l’atteggiamento di un rifugiato siriano, col bambino sulle spalle: fa vedere il dolore, senza addolcire il dramma di Gesù Bambino quando dovette fuggire in Egitto. È lo stesso che sta succedendo oggi. Il Mediterraneo ha una vocazione peculiare in tal senso: è il mare del meticciato, «culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione». Le purezze delle razze non hanno futuro. Il messaggio del meticciato ci dice tanto. Essere affacciati sul Mediterraneo rappresenta dunque una straordinaria potenzialità: non lasciamo che a causa di uno spirito nazionalistico, si diffonda la persuasione contraria, che cioè siano privilegiati gli Stati meno raggiungibili e geograficamente più isolati. Solamente il dialogo permette di incontrarsi, di superare pregiudizi e stereotipi, di raccontare e conoscere meglio sé stessi. Il dialogo e quella parola che ho sentito oggi: convivialità. Una particolare opportunità, a questo riguardo, è rappresentata dalle nuove generazioni, quando è loro assicurato l’accesso alle risorse e sono poste nelle condizioni di diventare protagoniste del loro cammino: allora si rivelano linfa capace di generare futuro e speranza. Tale risultato è possibile solo dove vi sia un’accoglienza non superficiale, ma sincera e benevola, praticata da tutti e a tutti i livelli, sul piano quotidiano delle relazioni interpersonali come su quello politico e istituzionale, e promossa da chi fa cultura e ha una responsabilità più forte nei confronti dell’opinione pubblica. Per chi crede nel Vangelo, il dialogo non ha semplicemente un valore antropologico, ma anche teologico. Ascoltare il fratello non è solo un atto di carità, ma anche un modo per mettersi in ascolto dello Spirito di Dio, che certamente opera anche nell’altro e parla al di là dei confini in cui spesso siamo tentati di imbrigliare la verità. Conosciamo poi il valore dell’ospitalità: «Alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Eb 13,2). C’è bisogno di elaborare una teologia dell’accoglienza e del dialogo, che reinterpreti e riproponga l’insegnamento biblico. Può essere elaborata solo se ci si sforza in ogni modo di fare il primo passo e non si escludono i semi di verità di cui anche gli altri sono depositari. In questo modo, il confronto tra i contenuti delle diverse fedi potrà riguardare non solo le verità credute, ma temi specifici, che diventano punti qualificanti di tutta la dottrina. Troppo spesso la storia ha conosciuto contrapposizioni e lotte, fondate sulla distorta persuasione che, contrastando chi non condivide il nostro credo, stiamo difendendo Dio. In realtà, estremismi e fondamentalismi negano la dignità dell’uomo e la sua libertà religiosa, causando un declino morale e incentivando una concezione antagonistica dei rapporti umani. È anche per questo che si rende urgente un incontro più vivo tra le diverse fedi religiose, mosso da un sincero rispetto e da un intento di pace. Tale incontro muove dalla consapevolezza, fissata nel Documento sulla fratellanza firmato ad Abu Dhabi, che «i veri insegnamenti delle religioni invitano a restare ancorati ai valori della pace; a sostenere i valori della reciproca conoscenza, della fratellanza umana e della convivenza comune». Anche attorno al sostegno dei poveri e all’accoglienza dei migranti, si può quindi realizzare una più attiva collaborazione tra i gruppi religiosi e le diverse comunità, in modo che il confronto sia animato da intenti comuni e si accompagni a un impegno fattivo. Quanti insieme si sporcano le mani per costruire la pace e praticare l’accoglienza, non potranno più combattersi per motivi di fede, ma percorreranno le vie del confronto rispettoso, della solidarietà reciproca, della ricerca dell’unità. E il contrario è quello che ho sentito quando sono andato a Lampedusa, quell’aria di indifferenza: nell’isola c’era accoglienza, ma poi nel mondo la cultura dell’indifferenza. Questi sono gli auspici che desidero comunicarvi, cari Confratelli, a conclusione del fruttuoso e consolante incontro di questi giorni. Vi affido all’intercessione dell’apostolo Paolo, che per primo ha solcato il Mediterraneo, affrontando pericoli e avversità di ogni genere per portare a tutti il Vangelo di Cristo: il suo esempio vi indichi le vie lungo le quali proseguire il gioioso e liberante impegno di trasmettere la fede nel nostro tempo. Come mandato, vi consegno le parole del profeta Isaia, perché diano speranza e comunichino forza a voi e alle vostre rispettive comunità. Davanti alla desolazione di Gerusalemme a seguito dell’esilio, il profeta non cessa di intravedere un futuro di pace e prosperità: «Ricostruiranno le vecchie rovine, rialzeranno gli antichi ruderi, restaureranno le città desolate, devastate da più generazioni» (Is 61,4). Ecco l’opera che il Signore vi affida per questa amata area del Mediterraneo: ricostruire i legami che sono stati interrotti, rialzare le città distrutte dalla violenza, far fiorire un giardino laddove oggi ci sono terreni riarsi, infondere speranza a chi l’ha perduta ed esortare chi è chiuso in sé stesso a non temere il fratello. E guardare questo, che è già diventato cimitero, come un luogo di futura risurrezione di tutta l’area. Il Signore accompagni i vostri passi e benedica la vostra opera di riconciliazione e di pace. Grazie.

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI PARTECIPANTI ALL’ASSEMBLEA PLENARIA DELLA CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA (DEGLI ISTITUTI DI STUDI)

[…] Quanto al metodo, l’educazione è un movimento inclusivo. Un’inclusione che va verso tutti gli esclusi: quelli per la povertà, per la vulnerabilità a causa di guerre, carestie e catastrofi naturali, per la selettività sociale, per le difficoltà familiari ed esistenziali. Un’inclusione che si concretizza nelle azioni educative a favore dei rifugiati, delle vittime della tratta degli esseri umani, dei migranti, senza alcuna distinzione di sesso, di religione o etnia. L’inclusione non è un’invenzione moderna, ma è parte integrante del messaggio salvifico cristiano. Oggi è necessario accelerare questo movimento inclusivo dell’educazione per arginare la cultura dello scarto, originata dal rifiuto della fraternità come elemento costitutivo dell’umanità. […]

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SALUTO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI MEMBRI DEI CAVALIERI DI COLOMBO

[…] Dalla loro fondazione, i Cavalieri di Colombo hanno dimostrato incondizionata devozione al Successore di Pietro. La creazione del Fondo Vicarius Christi è una testimonianza di ciò, così come il desiderio di partecipare alla sollecitudine del Papa per tutte le Chiese e alla sua missione universale di carità. Nel nostro mondo, segnato da divisioni e disuguaglianze, il vostro generoso impegno nel servire tutti i bisognosi offre, specialmente ai giovani, un’ispirazione importante per superare la globalizzazione dell’indifferenza e costruire insieme una società più giusta e inclusiva. […]

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PAPA FRANCESCO ANGELUS

Dopo Angelus Cari fratelli e sorelle, ieri, nella memoria liturgica di Santa Giuseppina Bakhita, si è celebrata la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la Tratta di persone. Per sanare questa piaga – perché è una vera piaga! – che sfrutta i più deboli, è necessario l’impegno di tutti: istituzioni, associazioni e agenzie educative. Sul fronte della prevenzione, mi preme segnalare come diverse ricerche attestino che le organizzazioni criminali usano sempre più i moderni mezzi di comunicazione per adescare le vittime con l’inganno. Pertanto, è necessario da una parte educare a un uso sano dei mezzi tecnologici, dall’altra vigilare e richiamare i fornitori di tali servizi telematici alle loro responsabilità. Continuano a giungere notizie dolorose dal nord-ovest della Siria, in particolare sulle condizioni di tante donne e bambini, della gente costretta a fuggire a causa dell’ escalation militare. Rinnovo il mio accorato appello alla comunità internazionale e a tutti gli attori coinvolti ad avvalersi degli strumenti diplomatici, del dialogo e dei negoziati, nel rispetto del Diritto Umanitario Internazionale, per salvaguardare la vita e le sorti dei civili. Preghiamo per questa amata e martoriata Siria: Ave o Maria,… […]

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SEMINARIO SUL TEMA: “NUOVE FORME DI FRATERNITÀ SOLIDALE, DI INCLUSIONE, INTEGRAZIONE E INNOVAZIONE” ORGANIZZATO DALLA PONTIFICIA ACCADEMIA DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Signore e Signori, buon pomeriggio. Desidero esprimervi la mia gratitudine per questo incontro. Approfittiamo di questo nuovo inizio dell’anno per costruire ponti, ponti che favoriscano lo sviluppo di uno sguardo solidale a partire dalle banche, dalle finanze, dai governi e dalle decisioni economiche. Abbiamo bisogno di molte voci capaci di pensare, da una prospettiva poliedrica, le diverse dimensioni di un problema globale che riguarda i nostri popoli e le nostre democrazie. Vorrei iniziare con un dato di fatto. Il mondo è ricco e, tuttavia, i poveri aumentano attorno a noi. Secondo rapporti ufficiali, il reddito mondiale di quest’anno sarà di quasi 12.000 dollari pro capite. Eppure centinaia di milioni di persone sono ancora immerse nella povertà estrema e non dispongono di cibo, alloggio, assistenza medica, scuole, elettricità, acqua potabile e servizi sanitari adeguati e indispensabili. Si calcola che all’incirca cinque milioni di bambini sotto i 5 anni moriranno quest’anno a causa della povertà. Altri 260 milioni non riceveranno un’educazione per mancanza di risorse, per le guerre e le migrazioni. Questo in un mondo ricco, perché il mondo è ricco. Questa situazione ha portato milioni di persone a essere vittime della tratta e delle nuove forme di schiavitù, come il lavoro forzato, la prostituzione e il traffico di organi. Non usufruiscono di alcun diritto e garanzia; non possono neppure godere dell’amicizia o della famiglia. Tali realtà non devono essere motivo di disperazione, bensì di azione. Sono realtà che ci spingono a fare qualcosa. Il principale messaggio di speranza che desidero condividere con voi è proprio questo: si tratta di problemi risolvibili e non di mancanza di risorse. Non esiste un determinismo che ci condanni all’iniquità universale. Permettetemi di ripeterlo: non siamo condannati all’iniquità universale. Ciò rende possibile un nuovo modo di fronteggiare gli eventi, che consenta di trovare e generare risposte creative dinanzi all’evitabile sofferenza di tanti innocenti; il che implica accettare che, in non poche situazioni, ci troviamo di fronte a una mancanza di volontà e di decisione per cambiare le cose e principalmente le priorità. Ci viene chiesta la capacità di lasciarci interpellare e di lasciar cadere le squame dagli occhi e vedere con una nuova luce queste realtà, una luce che ci spinga all’azione. Un mondo ricco e un’economia vivace possono e devono porre fine alla povertà. Si possono generare e promuovere dinamiche capaci di includere, alimentare, curare e vestire gli ultimi della società invece di escluderli. Dobbiamo scegliere a che cosa e a chi dare la priorità: se favorire meccanismi socio-economici umanizzanti per tutta la società o, al contrario, fomentare un sistema che finisce col giustificare determinate pratiche che non fanno altro che aumentare il livello d’ingiustizia e di violenza sociale. Il livello di ricchezza e di tecnica accumulato dall’umanità, così come l’importanza e il valore che i diritti umani hanno acquisito, non ammettono più scuse. Dobbiamo essere consapevoli che tutti siamo responsabili. Ciò non vuol dire che tutti siamo colpevoli, no; tutti siamo responsabili di fare qualcosa. Se esiste la povertà estrema in mezzo alla ricchezza — a sua volta estrema — è perché abbiamo permesso che il divario si ampliasse fino a diventare il più grande della storia. Questi sono dati quasi ufficiali: le cinquanta persone più ricche del mondo hanno un patrimonio equivalente a 2,2 mila miliardi di dollari. Queste cinquanta persone da sole potrebbero finanziare l’assistenza medica e l’educazione di ogni bambino povero nel mondo, sia attraverso le tasse, sia attraverso iniziative filantropiche, o entrambe. Queste cinquanta persone potrebbero salvare milioni di vite ogni anno. La globalizzazione dell’indifferenza l’hanno chiamata “inazione”. San Giovanni Paolo II l’ha chiamata: strutture del peccato. Tali strutture trovano un clima propizio alla loro espansione ogni volta che il bene comune viene ridotto o limitato a determinati settori o, nel caso che ci riunisce qui, quando l’economia e la finanza diventano fini a se stesse. È l’idolatria del denaro, la cupidigia e la speculazione. È questa realtà, sommata ora alla vertigine tecnologica esponenziale, che incrementa, a passi mai visti prima, la velocità delle transazioni e la possibilità di produrre guadagni concentrati senza che questi siano legati ai processi produttivi e neppure all’economia reale. La comunicazione virtuale favorisce questo tipo di cose. Aristotele celebra l’invenzione della moneta e il suo uso, ma condanna fermamente la speculazione finanziaria perché in essa «il denaro stesso diventa produttivo, perdendo la sua vera finalità che è di facilitare il commercio e la produzione» (Politica I, 10, 1258 b). In modo analogo, e seguendo la ragione illuminata dalla fede, la dottrina sociale della Chiesa celebra le forme di governo e le banche — molte volte create a sua tutela: è interessante vedere la storia dei monti di pietà, delle banche create per favorire e collaborare — quando adempiono alla loro finalità, che è, in definitiva, ricercare il bene comune, la giustizia sociale, la pace, come pure lo sviluppo integrale di ogni individuo, di ogni comunità umana e di tutte le persone. Tuttavia la Chiesa avverte che queste istituzioni benefiche, sia pubbliche sia private, possono decadere in strutture di peccato. Sto utilizzando la definizione di san Giovanni Paolo II. Le strutture del peccato oggi includono ripetuti tagli delle tasse per le persone più ricche, giustificati molte volte in nome dell’investimento e dello sviluppo; paradisi fiscali per i guadagni privati e corporativi; e naturalmente la possibilità di corruzione da parte di alcune delle imprese più grandi del mondo, non di rado in sintonia con il settore politico governante. Ogni anno centomila milioni di dollari, che si dovrebbero versare in imposte per finanziare l’assistenza medica e l’educazione, si accumulano in conti di paradisi fiscali, impedendo così la possibilità dello sviluppo degno e sostenuto di tutti gli attori sociali. Le persone povere in paesi molto indebitati sopportano oneri fiscali opprimenti e tagli nei servizi sociali, man mano che i loro governi pagano debiti contratti in modo insensibile e insostenibile. Di fatto, il debito pubblico contratto, in non pochi casi per dare impulso e incoraggiare lo sviluppo economico e produttivo di un paese, può costituirsi in un fattore che danneggia e pregiudica il tessuto sociale. Quando finisce con l’orientarsi verso un’altra finalità. Così come esiste una co-irresponsabilità riguardo a questo danno provocato all’economia e alla società, esiste anche una co-responsabilità ispiratrice e promettente per creare una clima di fraternità e di rinnovata fiducia che abbracci nel complesso la ricerca di soluzioni innovatrici e umanizzanti. È bene ricordare che non esiste una legge magica o invisibile che ci condanna al congelamento o alla paralisi di fronte all’ingiustizia. Ed ancor meno una razionalità economica che presuppone che la persona umana è semplicemente un’accumulatrice di benefici individuali estranei alla sua condizione di essere sociale. Le esigenze morali di san Giovanni Paolo II nel 1991 appaiono oggi sorprendentemente attuali: «È certamente giusto il principio che i debiti debbano essere pagati; non è lecito, però, chiedere o pretendere un pagamento, quando questo verrebbe ad imporre di fatto scelte politiche tali da spingere alla fame e alla disperazione intere popolazioni. Non si può pretendere che i debiti contratti siano pagati con insopportabili sacrifici. In questi casi è necessario — come, del resto, sta in parte avvenendo — trovare modalità di alleggerimento, di dilazione o anche di estinzione del debito, compatibili col fondamentale diritto dei popoli alla sussistenza ed al progresso» (Centesimus annus, n. 35). Di fatto, anche gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile approvati all’unanimità da tutte le nazioni riconoscono questo punto — è un punto umano — ed esortano tutti i popoli ad «aiutare i paesi a raggiungere la sostenibilità del debito a lungo termine attraverso politiche coordinate volte a favorire il finanziamento del debito, la riduzione del debito e la conversione del debito, e affrontare il debito estero e ridurre il disagio dei paesi poveri fortemente indebitati» (SDG, 17, 4). In ciò devono consistere le nuove forme di solidarietà che oggi ci riuniscono, che ci riuniscono qui, se si pensa al mondo delle banche e della finanza: nell’aiuto per lo sviluppo dei popoli rimasti indietro e nel livellamento tra i paesi che godono di un determinato standard e livello di sviluppo e quelli impossibilitati a garantire il minimo necessario alle loro popolazioni. Solidarietà ed economia per l’unione, non per la divisione, con la sana e chiara consapevolezza della corresponsabilità. Praticamente da qui è necessario affermare che la più grande struttura di peccato, o la più grande struttura d’ingiustizia, è la stessa industria della guerra, poiché è denaro e tempo al servizio della divisione e della morte. Il mondo perde ogni anno miliardi di dollari in armamenti e violenza, somme che porrebbero fine alla povertà e all’analfabetismo se si potessero ridestinare. Veramente Isaia parlò a nome di Dio per tutta l’umanità quando predisse il giorno del Signore in cui «forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci» (Is 2, 4). Seguiamolo! Più di settant’anni fa, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite impegnò tutti i suoi Stati Membri a prendersi cura dei poveri nella loro terra e nelle loro case, e in tutto il mondo, ossia nella casa comune, tutto il mondo è la casa comune. I governi riconobbero che la tutela sociale, i redditi di base, l’assistenza medica per tutti e l’educazione universale erano inerenti alla dignità umana fondamentale e, pertanto, ai diritti umani fondamentali. Questi diritti economici e un ambiente sicuro per tutti sono la misura più elementare della solidarietà umana. E la buona notizia è che mentre nel 1948 tali obiettivi non erano di portata immediata, oggi, con un mondo molto più sviluppato e interconnesso, sì lo sono. Sono stati fatti passi avanti in tal senso. Voi, che tanto gentilmente vi siete riuniti qui, siete i leader finanziari ed esperti economici del mondo. Insieme ai vostri colleghi, aiutate a stabilire le norme impositive globali, informare il pubblico globale sulla nostra situazione economica e consigliare i governi del mondo in tema di bilancio. Conoscete di prima mano quali sono le ingiustizie della nostra economia globale attuale, o le ingiustizie di ogni paese. Lavoriamo insieme per porre fine a queste ingiustizie. Quando gli organismi multilaterali di credito forniscono consulenza alle diverse nazioni, risulta importante tener presenti i concetti elevati della giustizia fiscale, i bilanci pubblici responsabili del loro indebitamento e, soprattutto, una promozione effettiva, e che li renda protagonisti, dei più poveri nella trama sociale. Ricordate loro la responsabilità che hanno di offrire assistenza per lo sviluppo alle nazioni povere e un alleggerimento del debito per le nazioni molto indebitate. Ricordate loro l’imperativo di arrestare il cambiamento climatico provocato dall’uomo, come hanno promesso tutte le nazioni, affinché non distruggiamo le basi della nostra Casa Comune. Una nuova etica presuppone l’essere consapevoli della necessità che tutti s’impegnino a lavorare insieme per chiudere i rifugi fiscali, evitare le evasioni e il riciclaggio di denaro che derubano la società, come anche per dire alle nazioni l’importanza di difendere la giustizia e il bene comune al di sopra degli interessi delle imprese e delle multinazionali più potenti — che finiscono col soffocare e impedire la produzione locale —. Il tempo presente esige e richiede di passare da una logica insulare e antagonistica come unico meccanismo autorizzato per la soluzione dei conflitti, a un’altra capace di promuovere la interconnessione che favorisce una cultura dell’incontro, dove si rinnovino le basi solide di una nuova architettura finanziaria internazionale. In tale contesto, in cui lo sviluppo di alcuni settori sociali e finanziari ha raggiunto livelli mai visti prima, quanto è importante ricordare le parole del Vangelo di Luca: «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto» (12, 48). Quanto è ispiratore ascoltare sant’Ambrogio, il quale pensa con il Vangelo: «Tu (ricco) non dai del tuo al povero [quando fai carità]…. ma gli stai consegnando ciò che è suo. Perché la proprietà comune data in uso per tutti, la stai usando tu solo» (Naboth 12, 53). Questo è il principio della destinazione universale dei beni, la base della giustizia economica e sociale, come anche del bene comune. Mi rallegro della vostra presenza qui oggi. Celebriamo l’opportunità di saperci co-partecipi nell’opera del Signore che può cambiare il corso della storia a beneficio della dignità di ogni persona di oggi e di domani, specialmente degli esclusi, e a beneficio del grande bene della pace. C’impegniamo insieme con umiltà e saggezza a servire la giustizia internazionale e inter-generazionale. Abbiamo una speranza sconfinata nell’insegnamento di Gesù che i poveri in spirito sono benedetti e felici, perché di essi è il Regno dei cieli (cfr. Mt 5, 3) che inizia già qui e ora. Grazie! E, per favore, vi faccio una richiesta, non è un prestito: non vi dimenticate di pregare per me, perché questo lavoro che mi tocca fare non è per niente facile, e io su di voi invoco tutte le benedizioni, su di voi e sul vostro lavoro.