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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO ALLA DELEGAZIONE DEL PATRIARCATO ECUMENICO DI COSTANTINOPOLI

[…] Prendere sul serio la crisi che stiamo attraversando significa dunque, per noi cristiani in cammino verso la piena comunione, chiederci come vogliamo procedere. Ogni crisi pone di fronte a un bivio e apre due vie: quella del ripiegamento su sé stessi, nella ricerca delle proprie sicurezze e opportunità, o quella dell’apertura all’altro, con i rischi che comporta, ma soprattutto con i frutti di grazia che Dio garantisce. Cari fratelli, non è forse giunta l’ora in cui dare, con l’aiuto dello Spirito, slancio ulteriore al nostro cammino per abbattere vecchi pregiudizi e superare definitivamente rivalità dannose? Senza ignorare le differenze che andranno superate attraverso il dialogo, nella carità e nella verità, non potremmo inaugurare una nuova fase delle relazioni tra le nostre Chiese, caratterizzata dal camminare maggiormente insieme, dal voler fare reali passi avanti, dal sentirci veramente corresponsabili gli uni per gli altri? Se saremo docili all’amore, lo Spirito Santo, che è l’amore creativo di Dio e mette in armonia le diversità, aprirà le vie per una fraternità rinnovata. […]

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PAPA FRANCESCO ANGELUS

Dopo l’Angelus:
Cari fratelli e sorelle!
[…] Assicuro la mia vicinanza alle popolazioni del sud-est della Repubblica Ceca
colpite da un forte uragano. Prego per i defunti e i feriti e per quanti hanno
dovuto lasciare le loro case, gravemente danneggiate. […]

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LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI PATRIARCHI CATTOLICI DEL MEDIO ORIENTE

Beatitudini,
Cari Fratelli in Cristo,

Con gioia ho accolto l’invito che mi avete rivolto a unirmi a voi in questo giorno speciale, nel quale ciascuno di voi celebra con i propri fedeli una Divina Liturgia per invocare dal Signore il dono della pace in Medio Oriente e consacrarlo alla Sacra Famiglia.

Sin dall’inizio del mio Pontificato ho cercato di rendermi vicino alle vostre sofferenze, sia facendomi pellegrino dapprima in Terra Santa, poi in Egitto, negli Emirati Arabi Uniti ed infine pochi mesi fa in Iraq, sia invitando la Chiesa intera alla preghiera e alla solidarietà concreta per la Siria, il Libano, tanto provati dalla guerra e dall’instabilità sociale, politica ed economica. Ricordo bene poi l’incontro del 7 luglio 2018 a Bari, e vi ringrazio perché con il vostro radunarvi odierno preparate i cuori alla convocazione del prossimo 1° luglio in Vaticano, insieme a tutti i Capi delle Chiese del Paese dei Cedri.

La Sacra Famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria cui avete scelto di consacrare il Medio Oriente rappresenta bene la vostra identità e la vostra missione. Essa anzitutto custodiva il mistero del farsi carne del Figlio di Dio, si costituiva intorno a Gesù e in ragione di Lui. Ce lo ha donato Maria, attraverso il suo sì all’annuncio dell’angelo a Nazareth, lo ha accolto Giuseppe, rimanendo anche durante il sonno in ascolto della voce di Dio ed essendo pronto a compiere la Sua volontà una volta ridestato. Un mistero di umiltà e di spoliazione, come nella nascita di Betlemme, riconosciuto dai piccoli e dai lontani, ma insidiato da coloro che erano più attaccati al potere terreno che a stupirsi per il compimento della promessa di Dio. Per custodire il Verbo fatto carne, Giuseppe e Maria si mettono in cammino, recandosi in Egitto, unendo all’umiltà della nascita a Betlemme l’indigenza di persone costrette ad emigrare. In questo modo però rimangono fedeli alla loro vocazione e inconsapevolmente anticipano quel destino di esclusione e persecuzione che sarà di Gesù divenuto adulto che però dischiuderà la risposta del Padre, il mattino di Pasqua.

La consacrazione alla Sacra Famiglia convoca anche ciascuno di voi a riscoprire come singoli e come comunità la vostra vocazione di essere cristiani in Medio Oriente, non soltanto chiedendo il giusto riconoscimento dei vostri diritti in quanto cittadini originari di quelle amate terre, ma vivendo la vostra missione di custodi e testimoni delle prime origini apostoliche. Nel mio viaggio in Iraq ho utilizzato in due occasioni l’immagine del tappeto, che le mani sapienti degli uomini e delle donne del Medio Oriente sanno intessere creando geometrie precise e preziose immagini, frutto però dell’intreccio di numerosi fili che soltanto stando insieme fianco a fianco diventano un capolavoro. Se la violenza, l’invidia, la divisione, possono giungere a strappare anche solo uno di quei fili, tutto l’insieme viene ferito e deturpato. In quel momento, progetti e accordi umani possono ben poco se non confidiamo nella potenza risanatrice di Dio. Non cercate di dissetarvi alle sorgenti avvelenate dell’odio, ma lasciate irrigare i solchi del campo dei vostri cuori dalla rugiada dello Spirito, come hanno fatto i grandi santi delle vostre rispettive tradizioni: copta, maronita, melkita, siriaca, armena, caldea, latina.

Quante civiltà e dominazioni sono sorte, fiorite e poi cadute, con le loro opere mirabili e le conquiste sul terreno: tutto è passato. Cominciando dal nostro padre Abramo la Parola di Dio invece ha continuato rimanere lampada che ha illuminato ed illumina i nostri passi.

Vi lascio la pace, vi do la mia pace ha detto il Signore Risorto ai discepoli ancora impauriti nel Cenacolo dopo la Pasqua: anche io, ringraziandovi per la vostra testimonianza e il vostro perseverare nella fede, vi invito a vivere la profezia della fratellanza umana, che è stata al centro dei miei incontri ad Abu Dhabi e a Najaf, come pure della mia Lettera enciclica Fratelli Tutti.

Siate davvero il sale delle vostre terre, date sapore alla vita sociale desiderosi di contribuire alla costruzione del bene comune, secondo quei principi della Dottrina Sociale della Chiesa tanto bisognosa di essere conosciuta, come era stato indicato dall’Esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in Medio Oriente e come avete voluto ricordare commemorando il centotrentesimo anniversario della Lettera enciclica Rerum Novarum.

Mentre imparto di cuore la Benedizione Apostolica a tutti coloro che sono intervenuti a questa celebrazione e a coloro che la seguiranno tramite i mezzi di comunicazione, vi chiedo di pregare per me.

Roma, San Giovanni in Laterano, 27 giugno 2021

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI MEMBRI DELLA CARITAS ITALIANA NEL 50° DI FONDAZIONE

Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti, tutti!
Ringrazio il Cardinale Bassetti e il Presidente della Caritas Italiana, Monsignor
Redaelli, per le parole che mi hanno rivolto a nome di tutti. Grazie. Siete venuti
dall’Italia intera, in rappresentanza delle 218 Caritas diocesane e di Caritas
Italiana, e io sono contento di condividere con voi questo Giubileo, il vostro
cinquantesimo anno di vita! Siete parte viva della Chiesa, siete «la nostra
Caritas», come amava dire San Paolo VI, il Papa che l’ha voluta e impostata. Egli
incoraggiò la Conferenza Episcopale Italiana a dotarsi di un organismo pastorale
per promuovere la testimonianza della carità nello spirito del Concilio Vaticano
II, perché la comunità cristiana fosse soggetto di carità. Confermo il vostro
compito: nell’attuale cambiamento d’epoca le sfide e le difficoltà sono tante,
sono sempre di più i volti dei poveri e le situazioni complesse sul territorio. Ma –
diceva San Paolo VI – «le nostre Caritas si prodigano oltre le forze» (Angelus, 18
gennaio 1976). E questo è vero!
La ricorrenza dei 50 anni è una tappa di cui ringraziare il Signore per il cammino
fatto e per rinnovare, con il suo aiuto, lo slancio e gli impegni. A questo
proposito vorrei indicarvi tre vie, tre strade su cui proseguire il percorso.
La prima è la via degli ultimi. È da loro che si parte, dai più fragili e indifesi. Da
loro. Se non si parte da loro, non si capisce nulla. E mi permetto una confidenza.
L’altro giorno ho sentito, su questo, parole vissute dall’esperienza, dalla bocca di
don Franco, qui presente. Lui non vuole che si dica “eminenza”, “cardinale
Montenegro”: don Franco. E lui mi ha spiegato questo, la via degli ultimi, perché
lui ha vissuto tutta la vita questo. In lui, ringrazio tanti uomini e donne che
fanno la carità perché l’hanno vissuta così, hanno capito la via degli ultimi. La
carità è la misericordia che va in cerca dei più deboli, che si spinge fino alle
frontiere più difficili per liberare le persone dalle schiavitù che le opprimono e
renderle protagoniste della propria vita. Molte scelte significative, in questi
cinque decenni, hanno aiutato le Caritas e le Chiese locali a praticare questa
misericordia: dall’obiezione di coscienza al sostegno al volontariato; dall’impegno
nella cooperazione con il Sud del pianeta agli interventi in occasione di
emergenze in Italia e nel mondo; dall’approccio globale al complesso fenomeno
delle migrazioni, con proposte innovative come i corridoi umanitari,
all’attivazione di strumenti capaci di avvicinare la realtà, come i Centri di ascolto,
gli Osservatori delle povertà e delle risorse. È bello allargare i sentieri della
carità, sempre tenendo fisso lo sguardo sugli ultimi di ogni tempo. Allargare sì lo
sguardo, ma partendo dagli occhi del povero che ho davanti. Lì si impara. Se noi
non siamo capaci di guardare negli occhi i poveri, di guardarli negli occhi, di
toccarli con un abbraccio, con la mano, non faremo nulla. È con i loro occhi che
occorre guardare la realtà, perché guardando gli occhi dei poveri guardiamo la
realtà in un modo differente da quello che viene nella nostra mentalità. La storia
non si guarda dalla prospettiva dei vincenti, che la fanno apparire bella e
perfetta, ma dalla prospettiva dei poveri, perché è la prospettiva di Gesù. Sono i
poveri che mettono il dito nella piaga delle nostre contraddizioni e inquietano la
nostra coscienza in modo salutare, invitandoci al cambiamento. E quando il
nostro cuore, la nostra coscienza, guardando il povero, i poveri, non si inquieta,
fermatevi…, dovremmo fermarci: qualcosa non funziona.
Una seconda via irrinunciabile: la via del Vangelo. Mi riferisco allo stile da avere,
che è uno solo, quello appunto del Vangelo. È lo stile dell’amore umile, concreto
ma non appariscente, che si propone ma non si impone. È lo stile dell’amore
gratuito, che non cerca ricompense. È lo stile della disponibilità e del servizio, a
imitazione di Gesù che si è fatto nostro servo. È lo stile descritto da San Paolo,
quando dice che la carità «tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta»
(1 Cor 13,7). Mi colpisce la parola tutto. Tutto. È detta a noi, a cui piace fare
delle distinzioni. Tutto. La carità è inclusiva, non si occupa solo dell’aspetto
materiale e nemmeno solo di quello spirituale. La salvezza di Gesù abbraccia
l’uomo intero. Abbiamo bisogno di una carità dedicata allo sviluppo integrale
della persona: una carità spirituale, materiale, intellettuale. È lo stile integrale
che avete sperimentato in grandi calamità, anche attraverso i gemellaggi, bella
esperienza di alleanza a tutto campo nella carità tra le Chiese in Italia, in Europa
e nel mondo. Ma questo – lo sapete bene – non deve sorgere solo in occasione
delle calamità: abbiamo bisogno che le Caritas e le comunità cristiane siano
sempre in ricerca per servire tutto l’uomo, perché “l’uomo è la via della Chiesa”,
secondo l’espressione sintetica di San Giovanni Paolo II (cfr Lett. enc.
Redemptor hominis, 14).
La via del Vangelo ci indica che Gesù è presente in ogni povero. Ci fa bene
ricordarlo per liberarci dalla tentazione, sempre ricorrente, dell’autoreferenzialità
ecclesiastica ed essere una Chiesa della tenerezza e della vicinanza, dove i
poveri sono beati, dove la missione è al centro, dove la gioia nasce dal servizio.
Ricordiamo che lo stile di Dio è lo stile della prossimità, della compassione e
della tenerezza. Questo è lo stile di Dio. Ci sono due mappe evangeliche che
aiutano a non smarrirci nel cammino: le Beatitudini (Mt 5,3-12) e Matteo 25 (vv.
31-46). Nelle Beatitudini la condizione dei poveri si riveste di speranza e la loro
consolazione diventa realtà, mentre le parole del Giudizio finale – il protocollo sul
quale saremo giudicati – ci fanno trovare Gesù presente nei poveri di ogni
tempo. E dalle forti espressioni di giudizio del Signore ricaviamo anche l’invito
alla parresia della denuncia. Essa non è mai polemica contro qualcuno, ma
profezia per tutti: è proclamare la dignità umana quando è calpestata, è far
udire il grido soffocato dei poveri, è dare voce a chi non ne ha.
E la terza via è la via della creatività. La ricca esperienza di questi cinquant’anni
non è un bagaglio di cose da ripetere; è la base su cui costruire per declinare in
modo costante quella che San Giovanni Paolo II ha chiamato fantasia della carità
(cfr Lett. ap. Novo millennio ineunte, 50). Non lasciatevi scoraggiare di fronte ai
numeri crescenti di nuovi poveri e di nuove povertà. Ce ne sono tante e
crescono! Continuate a coltivare sogni di fraternità e ad essere segni di
speranza. Contro il virus del pessimismo, immunizzatevi condividendo la gioia di
essere una grande famiglia. In questa atmosfera fraterna lo Spirito Santo, che è
creatore e creativo, e anche poeta, suggerirà idee nuove, adatte ai tempi che
viviamo.
E ora – dopo questa predica di Quaresima! – vorrei dirvi grazie, grazie: grazie a
voi, agli operatori, ai sacerdoti e ai volontari! Grazie anche perché in occasione
della pandemia la rete Caritas ha intensificato la sua presenza e ha alleviato la
solitudine, la sofferenza e i bisogni di molti. Sono decine di migliaia di volontari,
tra cui tanti giovani, inclusi quelli impegnati nel servizio civile, che hanno offerto
in questo tempo ascolto e risposte concrete a chi è nel disagio. Proprio ai giovani
vorrei che si prestasse attenzione. Sono le vittime più fragili di questa epoca di
cambiamento, ma anche i potenziali artefici di un cambiamento d’epoca. Sono
loro i protagonisti dell’avvenire. Non sono l’avvenire, sono il presente, ma
protagonisti dell’avvenire. Non è mai sprecato il tempo che si dedica ad essi, per
tessere insieme, con amicizia, entusiasmo, pazienza, relazioni che superino le
culture dell’indifferenza e dell’apparenza. Non bastano i “like” per vivere: c’è
bisogno di fraternità, c’è bisogno di gioia vera. La Caritas può essere una
palestra di vita per far scoprire a tanti giovani il senso del dono, per far loro
assaporare il gusto buono di ritrovare sé stessi dedicando il proprio tempo agli
altri. Così facendo la Caritas stessa rimarrà giovane e creativa, manterrà uno
sguardo semplice e diretto, che si rivolge senza paura verso l’Alto e verso l’altro,
come fanno i bambini. Non dimenticare il modello dei bambini: verso l’Alto e
verso l’altro.
Cari amici, ricordatevi, per favore, di queste tre vie e percorretele con gioia:
partire dagli ultimi, custodire lo stile del Vangelo, sviluppare la creatività. Vi
saluto con una frase dell’Apostolo Paolo, che festeggeremo tra pochi giorni:
«L’amore del Cristo ci possiede» (2 Cor 5,14). L’amore del Cristo ci possiede. Vi
auguro di lasciarvi possedere da questa carità: sentitevi ogni giorno scelti per
amore, sperimentate la carezza misericordiosa del Signore che si posa su di voi
e portatela agli altri. Io vi accompagno con la preghiera e vi benedico; e vi
chiedo per favore di pregare per me. Grazie!

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI PARTECIPANTI ALL’ASSEMBLEA DELLA RIUNIONE DELLE OPERE PER L’AIUTO ALLE CHIESE ORIENTALI (R.O.A.C.O.)

Cari amici,
sono lieto di incontrarvi al termine dei lavori di questa vostra sessione Plenaria.
Saluto il Cardinale Leonardo Sandri, il Cardinale Zenari, Monsignor Pizzaballa, gli
altri Superiori del Dicastero – che nel frattempo sono cambiati – gli Officiali e i
membri delle Agenzie che compongono la vostra Assemblea.
Il fatto di ritrovarsi in presenza dà fiducia e aiuta il vostro lavoro, mentre l’anno
scorso fu possibile soltanto collegarsi a distanza per riflettere insieme; ma
sappiamo che non è la stessa cosa: abbiamo bisogno di incontrarci, di far
dialogare meglio le parole e i pensieri, per accogliere le domande e il grido che
giungono da tante parti del mondo, in modo particolare dalle Chiese e dai Paesi
per i quali svolgete la vostra opera. Ne sono testimone io stesso, perché fu
proprio in questo contesto, nel 2019, che annunciai la mia intenzione di recarmi
in Iraq, e grazie a Dio pochi mesi fa ho potuto realizzare questo desiderio. Sono
stato contento di inserire, tra le persone del seguito, una vostra Rappresentante,
anche in segno di gratitudine per quello che avete fatto e che farete.
Nonostante la pandemia, avete avuto riunioni straordinarie nel corso di
quest’anno, sia per affrontare la situazione dell’Eritrea, sia per seguire quella del
Libano, dopo la terribile esplosione nel porto di Beirut il 4 agosto scorso. E a
questo proposito ringrazio per l’impegno a sostenere il Libano in questa grave
crisi; e vi chiedo di pregare e invitare a farlo per l’incontro che avremo il 1°
luglio, insieme ai Capi delle Chiese cristiane del Paese, perché lo Spirito Santo ci
guidi e ci illumini.
Attraverso di voi desidero far giungere il mio ringraziamento a tutte le persone
che sostengono i vostri progetti e che li rendono possibili: spesso sono semplici
fedeli, famiglie, parrocchie, volontari…, che sanno di essere “tutti fratelli” e
destinano un po’ del loro tempo e delle loro risorse per quelle realtà di cui voi vi
prendete cura. Mi hanno riferito che nel 2020 la Colletta per la Terra Santa ha
potuto raccogliere circa la metà rispetto agli anni passati. Certamente hanno
pesato i lunghi mesi in cui la gente non ha potuto radunarsi nelle chiese per le
celebrazioni, ma anche la crisi economica generata dalla pandemia. Se da un
lato questo ci fa bene, perché ci spinge a una maggiore essenzialità, tuttavia non
può lasciarci indifferenti, anche pensando alle strade deserte di Gerusalemme,
senza pellegrini che vanno a rigenerarsi nella fede, ma anche ad esprimere
solidarietà concreta con le Chiese e le popolazioni locali. Rinnovo pertanto
l’appello a tutti perché si riscopra l’importanza di questa carità, di cui parlava già
San Paolo nelle sue Lettere e che San Paolo VI ha voluto riorganizzare con
l’Esortazione Apostolica Nobis in animo, del 1974, che ripropongo nella sua piena
attualità e validità.
Nella vostra riunione vi siete soffermati su diversi contesti geografici ed
ecclesiali. Anzitutto la stessa Terra Santa, con Israele e Palestina, popoli per i
quali sogniamo sempre che nel cielo si distenda l’arco della pace, dato da Dio a
Noè come segno dell’alleanza tra Cielo e terra e della pace tra gli uomini (cfr Gen
9,12-17). Troppo spesso invece, anche di recente, quei cieli sono solcati da
ordigni che portano distruzione, morte e paura!
Il grido che si leva dalla Siria è sempre presente al cuore di Dio, ma sembra non
riesca a toccare quello degli uomini che hanno in mano le sorti dei popoli.
Rimane lo scandalo di dieci anni di conflitto, milioni di sfollati interni ed esterni,
le vittime, l’esigenza di una ricostruzione che resta ancora in ostaggio di logiche
di parte e della mancanza di decisioni coraggiose per il bene di quella martoriata
Nazione.
Oltre a quella del Cardinale Zenari, Nunzio Apostolico a Damasco, la presenza
dei Rappresentanti Pontifici in Libano, Iraq, Etiopia, Armenia e Georgia, che
saluto e ringrazio di cuore, vi ha consentito di riflettere sulla situazione ecclesiale
in quei Paesi. Il vostro stile è prezioso, perché aiuta i Pastori e i fedeli a
concentrarsi sull’essenziale, cioè su ciò che serve all’annuncio del Vangelo,
manifestando insieme il volto della Chiesa, che è Madre, con particolare
attenzione ai piccoli e ai poveri. A volte bisogna ricostruire gli edifici e le
cattedrali, comprese quelle distrutte dalle guerre, ma anzitutto bisogna avere a
cuore le pietre vive che sono ferite e disperse.
Seguo con apprensione la situazione che si è generata con il conflitto nella
regione del Tigray, in Etiopia, sapendo che la sua portata abbraccia anche la
vicina Eritrea. Al di là delle differenze religiose e confessionali, ci rendiamo conto
di quanto sia essenziale il messaggio della Fratelli tutti, quando le differenze tra
etnie e le conseguenti lotte per il potere sono erette a sistema.
Al termine del mio Viaggio Apostolico in Armenia, nel 2016, insieme al Catholicos
Karekin II abbiamo liberato in cielo delle colombe, come segno e auspicio della
pace nell’intera regione del Caucaso. Purtroppo, essa negli ultimi mesi è stata
un’altra volta ferita, e per questo vi ringrazio per l’attenzione che avete posto
alla realtà della Georgia e dell’Armenia, affinché la comunità cattolica continui ad
essere segno e fermento di vita evangelica.
Carissimi, grazie della vostra presenza, grazie del vostro ascolto e della vostra
opera. Benedico ciascuno di voi e il vostro lavoro. E voi, per favore, continuate a
pregare per me. Grazie!

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PAPA FRANCESCO ANGELUS

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Nella liturgia di oggi si narra l’episodio della tempesta sedata da Gesù (Mc
4,35-41). La barca su cui i discepoli attraversano il lago è assalita dal vento e
dalle onde ed essi temono di affondare. Gesù è con loro sulla barca, eppure se
ne sta a poppa sul cuscino e dorme. I discepoli, pieni di paura, gli urlano:
«Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38).
E tante volte anche noi, assaliti dalle prove della vita, abbiamo gridato al
Signore: “Perché resti in silenzio e non fai nulla per me?”. Soprattutto quando ci
sembra di affondare, perché l’amore o il progetto nel quale avevamo riposto
grandi speranze svanisce; o quando siamo in balìa delle onde insistenti
dell’ansia; oppure quando ci sentiamo sommersi dai problemi o persi in mezzo al
mare della vita, senza rotta e senza porto. O ancora, nei momenti in cui viene
meno la forza di andare avanti, perché manca il lavoro oppure una diagnosi
inaspettata ci fa temere per la salute nostra o di una persona cara. Sono tanti i
momenti nei quali ci sentiamo in una tempesta, ci sentiamo quasi finiti.
In queste situazioni e in tante altre, anche noi ci sentiamo soffocare dalla paura
e, come i discepoli, rischiamo di perdere di vista la cosa più importante. Sulla
barca, infatti, anche se dorme, Gesù c’è, e condivide con i suoi tutto quello che
sta succedendo. Il suo sonno, se da una parte ci stupisce, dall’altra ci mette alla
prova. Il Signore è lì, presente; infatti, attende – per così dire – che siamo noi a
coinvolgerlo, a invocarlo, a metterlo al centro di quello che viviamo. Il suo sonno
provoca noi a svegliarci. Perché, per essere discepoli di Gesù, non basta credere
che Dio c’è, che esiste, ma bisogna mettersi in gioco con Lui, bisogna anche
alzare la voce con Lui. Sentite questo: bisogna gridare a Lui. La preghiera, tante
volte, è un grido: “Signore, salvami!”. Stavo vedendo, nel programma “A sua
immagine”, oggi, Giorno del Rifugiato, tanti che vengono in barconi e nel
momento di annegare gridano: “Salvaci!”. Anche nella nostra vita succede lo
stesso: “Signore, salvaci!”, e la preghiera diventa un grido.
Oggi possiamo chiederci: quali sono i venti che si abbattono sulla mia vita, quali
sono le onde che ostacolano la mia navigazione e mettono in pericolo la mia vita
spirituale, la mia vita di famiglia, la mia vita psichica pure? Diciamo tutto questo
a Gesù, raccontiamogli tutto. Egli lo desidera, vuole che ci aggrappiamo a Lui per
trovare riparo contro le onde anomale della vita. Il Vangelo racconta che i
discepoli si avvicinano a Gesù, lo svegliano e gli parlano (cfr v. 38). Ecco l’inizio
della nostra fede: riconoscere che da soli non siamo in grado di stare a galla, che
abbiamo bisogno di Gesù come i marinai delle stelle per trovare la rotta. La fede
comincia dal credere che non bastiamo a noi stessi, dal sentirci bisognosi di Dio.
Quando vinciamo la tentazione di rinchiuderci in noi stessi, quando superiamo la
falsa religiosità che non vuole scomodare Dio, quando gridiamo a Lui, Egli può
operare in noi meraviglie. È la forza mite e straordinaria della preghiera, che
opera miracoli.
Gesù, pregato dai discepoli, calma il vento e le onde. E pone loro una domanda,
una domanda che riguarda anche noi: «Perché avete paura? Non avete ancora
fede?» (v. 40). I discepoli si erano fatti catturare dalla paura, perché erano
rimasti a fissare le onde più che a guardare a Gesù. E la paura ci porta a
guardare le difficoltà, i problemi brutti e non a guardare il Signore, che tante
volte dorme. Anche per noi è così: quante volte restiamo a fissare i problemi
anziché andare dal Signore e gettare in Lui i nostri affanni! Quante volte
lasciamo il Signore in un angolo, in fondo alla barca della vita, per svegliarlo solo
nel momento del bisogno! Chiediamo oggi la grazia di una fede che non si stanca
di cercare il Signore, di bussare alla porta del suo Cuore. La Vergine Maria, che
nella sua vita non ha mai smesso di confidare in Dio, ridesti in noi il bisogno
vitale di affidarci a Lui ogni giorno.
Dopo l’Angelus:
Cari fratelli e sorelle!
Unisco la mia voce a quella dei Vescovi del Myanmar, che la scorsa settimana
hanno lanciato un appello richiamando all’attenzione del mondo intero
l’esperienza straziante di migliaia di persone che in quel Paese sono sfollate e
stanno morendo di fame: «Noi supplichiamo con tutta la gentilezza di
permettere corridoi umanitari» e che «chiese, pagode, monasteri, moschee,
templi, come pure scuole e ospedali» siano rispettati come luoghi neutrali di
rifugio. Che il Cuore di Cristo tocchi i cuori di tutti portando pace nel Myanmar!
Oggi si celebra la Giornata Mondiale del Rifugiato, promossa dalle Nazioni Unite,
sul tema “Insieme possiamo fare la differenza”. Apriamo il nostro cuore ai
rifugiati; facciamo nostre le loro tristezze e le loro gioie; impariamo dalla loro
coraggiosa resilienza! E così, tutti insieme, faremo crescere una comunità più
umana, una sola grande famiglia.

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VIDEOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO IN OCCASIONE DELLA 109.ma CONFERENZA INTERNAZIONALE DEL LAVORO

Signor Presidente della Conferenza Internazionale del Lavoro,
Stimati Rappresentanti dei Governi, delle Organizzazioni dei datori di lavoro e dei
lavoratori,
Ringrazio il Direttore Generale, il signor Guy Ryder, che tanto cortesemente mi
ha invitato a presentare questo messaggio al Vertice sul mondo del lavoro.
Questa Conferenza è stata convocata in un momento cruciale della storia sociale
ed economica, che presenta gravi e vaste sfide per il mondo intero. Negli ultimi
mesi, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, attraverso i suoi resoconti
periodici, ha svolto un lavoro encomiabile, dedicando particolare attenzione ai
nostri fratelli e sorelle più vulnerabili.
Durante la persistente crisi, dovremmo continuare a esercitare una “cura
particolare” del bene comune. Molti degli sconvolgimenti possibili e previsti
ancora non si sono manifestati, pertanto si richiederanno decisioni attente. La
diminuzione delle ore di lavoro negli ultimi anni si è tradotta sia in perdita di
posti di lavoro sia in una riduzione della giornata lavorativa di quanti
mantengono il proprio lavoro. Molti servizi pubblici, come pure imprese, hanno
dovuto far fronte a difficoltà tremende, alcuni correndo il rischio di fallimento
totale o parziale. In tutto il mondo abbiamo osservato nel 2020 una perdita di
posti di lavoro senza precedenti.
Con la fretta di tornare a una maggiore attività economica, al termine della
minaccia del Covid-19, evitiamo le passate fissazioni sul profitto, l’isolamento e il
nazionalismo, il consumismo cieco e la negazione delle chiare evidenze che
segnalano la discriminazione dei nostri fratelli e sorelle “scartabili” nella nostra
società. Al contrario, ricerchiamo soluzioni che ci aiutino a costruire un nuovo
futuro del lavoro fondato su condizioni lavorative decenti e dignitose, che
provenga da una negoziazione collettiva, e che promuova il bene comune, una
base che farà del lavoro una componente essenziale della nostra cura della
società e della creazione. In tal senso, il lavoro è veramente ed essenzialmente
umano. Di questo si tratta, che sia umano.
Ricordando il ruolo fondamentale che svolgono questa Organizzazione e questa
Conferenza come ambiti privilegiati per il dialogo costruttivo, siamo chiamati a
dare priorità alla nostra risposta ai lavoratori che si trovano ai margini del mondo
del lavoro e che si vedono ancora colpiti dalla pandemia di Covid-19; i lavoratori
poco qualificati, i lavoratori a giornata, quelli del settore informale, i lavoratori
migranti e rifugiati, quanti svolgono quello che si è soliti denominare “il lavoro
delle tre dimensioni”: pericoloso, sporco e degradante, e l’elenco potrebbe
andare avanti.
Molti migranti e lavoratori vulnerabili, insieme alle loro famiglie, generalmente
restano esclusi dall’accesso a programmi nazionali di promozione della salute,
prevenzione delle malattie, cure e assistenza, come pure dai piani di protezione
finanziaria e dai servizi psicosociali. È uno dei tanti casi di quella filosofia dello
scarto che ci siamo abituati a imporre nelle nostre società. Questa esclusione
complica l’individuazione precoce, l’esecuzione di test, la diagnosi, il
tracciamento dei contatti e la ricerca di assistenza medica per il Covid-19 per i
rifugiati e i migranti, e aumenta quindi il rischio che si producano focolai tra
quelle popolazioni. Tali focolai possono non essere controllati o addirittura
nascosti consapevolmente, il che costituisce un’ulteriore minaccia per la salute
pubblica [Cfr. «Preparedness, prevention, and control of coronavirus disease
(Covid-19) for refugees and migrants in non-camp settings», Interim Guidance,
World Health Organization, 17 April 2020].
La mancanza di misure di tutela sociale di fronte all’impatto del Covid-19 ha
provocato un aumento della povertà, la disoccupazione, la sottoccupazione,
l’incremento della informalità del lavoro, il ritardo nell’inserimento dei giovani nel
mercato del lavoro, il che è molto grave, l’aumento del lavoro infantile, il che è
ancora più grave, la vulnerabilità al traffico di persone, l’insicurezza alimentare e
una maggiore esposizione all’infezione tra popolazioni come i malati e gli anziani.
A tale riguardo ringrazio per questa opportunità di esporre alcune preoccupazioni
e osservazioni chiave.
In primo luogo, è missione fondamentale della Chiesa fare appello a tutti a
lavorare congiuntamente, con i governi, le organizzazioni multilaterali e la
società civile, per servire e prendersi cura del bene comune e garantire la
partecipazione di tutti in questo impegno. Nessuno dovrebbe essere lasciato da
parte in un dialogo per il bene comune, il cui obiettivo è, soprattutto, costruire,
consolidare la pace e la fiducia tra tutti. I più vulnerabili — i giovani, i migranti,
le comunità indigene, i poveri — non possono essere lasciati da parte in un
dialogo che dovrebbe riunire anche governi, imprenditori e lavoratori. È altresì
essenziale che tutte le confessioni e le comunità religiose s’impegnino insieme.
La Chiesa ha una lunga esperienza nella partecipazione a questi dialoghi
attraverso le sue comunità locali, movimenti popolari e organizzazioni, e si offre
al mondo come costruttrice di ponti per aiutare a creare le condizioni di tale
dialogo o, ove opportuno, aiutare a facilitarlo. Questi dialoghi per il bene comune
sono essenziali al fine di costruire un futuro solidale e sostenibile della nostra
casa comune e dovrebbero tenersi a livello sia comunitario sia nazionale e
internazionale. E una delle caratteristiche del vero dialogo è che quanti dialogano
siano sullo stesso piano di diritti e doveri. E non che uno che ha meno diritti o
più diritti dialoghi con uno che non li ha. Lo stesso livello di diritti e doveri
garantisce così un dialogo serio.
In secondo luogo, è anche essenziale per la missione della Chiesa garantire che
tutti ottengono la protezione di cui hanno bisogno a seconda delle loro
vulnerabilità: malattia, età, disabilità, dislocamento, emarginazione o
dipendenza. I sistemi di protezione sociale, che a loro volta stanno affrontando
rischi importanti, devono essere sostenuti e ampliati per assicurare l’accesso ai
servizi sanitari, all’alimentazione e ai bisogni umani di base. In tempi di
emergenza, come la pandemia di Covid-19, si richiedono misure speciali di
assistenza. Un’attenzione particolare alla prestazione integrale ed efficace di
assistenza attraverso i servizi pubblici è a sua volta importante. I sistemi di
protezione sociale sono stati chiamati ad affrontare molte delle sfide della crisi, e
allo stesso tempo i loro punti deboli sono diventati più evidenti. Infine, si deve
garantire la protezione dei lavoratori e dei più vulnerabili mediante il rispetto dei
loro diritti fondamentali, incluso il diritto della sindacalizzazione. Ossia, unirsi in
un sindacato è un diritto. La crisi del Covid ha già inciso sui più vulnerabili e
questi non dovrebbero vedersi colpiti negativamente dalle misure per accelerare
una ripresa che s’incentri unicamente sugli indicatori economici. Ossia, qui c’è
anche bisogno di una riforma del modo economico, una riforma a fondo
dell’economia. Il modo di portare avanti l’economia deve essere diverso, deve a
sua volta cambiare.
In questo momento di riflessione, in cui cerchiamo di modellare la nostra azione
futura e di dare forma a un’agenda internazionale post-Covid-19, dovremmo
prestare particolare attenzione al pericolo reale di dimenticare quanti sono
rimasti indietro. Corrono il rischio di essere attaccati da un virus ancora peggiore
del Covid-19: quello dell’indifferenza egoista. Ossia, una società non può
progredire scartando, non può progredire. Questo virus si propaga nel pensare
che la vita è migliore se è migliore per me, e che tutto andrà bene se andrà bene
per me, e così si inizia e si finisce selezionando una persona al posto di un’altra,
scartando i poveri, sacrificando quanti sono rimasti indietro sul cosiddetto “altare
del progresso”. È una vera e propria dinamica elitaria, di costituzione di nuove
élite al prezzo dello scarto di molta gente e di molti popoli.
Guardando al futuro, è fondamentale che la Chiesa, e pertanto l’azione della
Santa Sede con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, sostenga misure che
correggano situazioni ingiuste o incorrette che condizionano i rapporti di lavoro,
rendendoli completamente soggiogati all’idea di “esclusione”, o violando i diritti
fondamentali dei lavoratori. Una minaccia la costituiscono le teorie che
considerano il profitto e il consumo come elementi indipendenti o come variabili
autonome della vita economica, escludendo i lavoratori e determinando il loro
squilibrato standard di vita: «Oggi tutto entra nel gioco della competitività e
della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come
conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono
escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita»
(Evangelii gaudium, n. 53).
L’attuale pandemia ci ha ricordato che non ci sono differenze né confini tra
quanti soffrono. Siamo tutti fragili e, al tempo stesso, tutti di grande valore.
Speriamo che quanto sta accadendo attorno a noi ci scuota profondamente. È
giunto il momento di eliminare le disuguaglianze, di curare l’ingiustizia che sta
minando la salute dell’intera famiglia umana. Di fronte all’Agenda
dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, dobbiamo continuare come
abbiamo già fatto nel 1931, quando Papa Pio XI, dopo la crisi di Wall Street e nel
bel mezzo della “Grande Depressione”, denunciò l’asimmetria tra lavoratori e
imprenditori come una flagrante ingiustizia che concedeva al capitale carta
bianca e disponibilità. Diceva così: «Per lungo tempo certamente il capitale
troppo aggiudicò a sé stesso. Quanto veniva prodotto e i frutti che se ne
ricavavano, ogni cosa il capitale prendeva per sé, lasciando appena all’operaio
tanto che bastasse a ristorare le forze» (Quadragesimo anno, n. 55). Persino in
quelle circostanze, la Chiesa promosse la posizione secondo cui la remunerazione
per il lavoro svolto non solo deve essere destinata a soddisfare i bisogni
immediati e attuali dei lavoratori, ma anche ad aprire la capacità dei lavoratori di
salvaguardare i risparmi futuri delle loro famiglie o gli investimenti capaci di
garantire un margine di sicurezza per il futuro.
Così, fin dalla prima sessione della Conferenza Internazionale, la Santa Sede
sostiene una regolamentazione uniforme applicabile al lavoro in tutti i suoi
diversi aspetti, come garanzia per i lavoratori [Cfr. Lettera Noi rendiamo grazie di
Papa Leone XIII a Sua Maestà Guglielmo II, 14 marzo 1890]. È sua convinzione
che il lavoro, e pertanto i lavoratori, possono contare su garanzie, sostegno e
rafforzamento se li si protegge dal “gioco” della deregolamentazione. Inoltre le
norme giuridiche devono essere orientate verso la crescita dell’occupazione, il
lavoro dignitoso e i diritti e i doveri della persona umana. Sono tutti strumenti
necessari per il suo benessere, per lo sviluppo umano integrale e per il bene
comune.
La Chiesa cattolica e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, rispondendo alle
loro differenti nature e funzioni, possono continuare a mettere in atto le loro
rispettive strategie, ma possono anche continuare ad approfittare delle
opportunità che si presentano per collaborare in un’ampia varietà di azioni
importanti.
Per promuovere questa azione comune è necessario intendere correttamente il
lavoro. Il primo elemento per detta comprensione ci invita a focalizzare la
necessaria attenzione su tutte le forme di lavoro, includendo le forme di impiego
non standard. Il lavoro va al di là di ciò che tradizionalmente è conosciuto come
“impiego formale” e il Programma di Lavoro Dignitoso deve includere tutte le
forme di lavoro. La mancanza di protezione sociale dei lavoratori dell’economia
informale e delle loro famiglie li rende particolarmente vulnerabili agli scontri,
poiché non possono contare sulla protezione che offrono la previdenza sociale o i
regimi di assistenza sociale destinati alla povertà. Le donne dell’economia
informale, incluse le venditrici ambulanti e le collaboratrici domestiche, risentono
dell’impatto del Covid-19 sotto diversi punti di vista: dall’isolamento
all’esposizione estrema a rischi per la salute. Non disponendo di asili nido
accessibili, i figli di queste lavoratrici sono esposti a un maggior rischio per la
salute, perché le madri devono portarli sul posto di lavoro o lasciarli a casa
incustoditi. Pertanto, è particolarmente necessario garantire che l’assistenza
sociale giunga all’economia informale e presti speciale attenzione ai bisogni
particolari delle donne e delle bambine.
La pandemia ci ricorda che molte donne di tutto il mondo continuano ad anelare
alla libertà, alla giustizia e all’uguaglianza tra tutte le persone umane: «per
quanto ci siano stati notevoli miglioramenti nel riconoscimento dei diritti della
donna e nella sua partecipazione allo spazio pubblico, c’è ancora molto da
crescere in alcuni paesi. Non sono ancora del tutto sradicati costumi inaccettabili.
Anzitutto la vergognosa violenza che a volte si usa nei confronti delle donne, i
maltrattamenti familiari e varie forme di schiavitù […]. Penso alla […]
disuguaglianza dell’accesso a posti di lavoro dignitosi e ai luoghi in cui si
prendono le decisioni» (Amoris laetitia, n. 54).
Il secondo elemento per una corretta comprensione del lavoro: se il lavoro è un
rapporto, allora deve includere la dimensione della cura, perché nessun rapporto
può sopravvivere senza cura. Qui non ci riferiamo solo al lavoro di assistenza: la
pandemia ci ricorda la sua importanza fondamentale, che forse abbiamo
trascurato. La cura va oltre, deve essere una dimensione di ogni lavoro. Un
lavoro che non si prende cura, che distrugge la creazione, che mette in pericolo
la sopravvivenza delle generazioni future, non è rispettoso della dignità dei
lavoratori e non si può considerare dignitoso. Al contrario, un lavoro che si
prende cura, contribuisce al ripristino della piena dignità umana, contribuirà ad
assicurare un futuro sostenibile alle generazioni future [Care is work, work is
care, Report of «The future of work, labour after Laudato si’ project»]. E in
questa dimensione della cura rientrano, in primo luogo, i lavoratori. Ossia, una
domanda che possiamo farci nel quotidiano: come un’impresa, immaginiamo, si
prende cura dei suoi lavoratori?
Oltre a una corretta comprensione del lavoro, uscire in condizioni migliori dalla
crisi attuale richiederà lo sviluppo di una cultura della solidarietà, per contrastare
la cultura dello scarto che è all’origine della disuguaglianza e che affligge il
mondo. Per raggiungere questo obiettivo, occorrerà valorizzare l’apporto di tutte
quelle culture, come quella indigena, quella popolare, che spesso sono
considerate marginali, ma che mantengono viva la pratica della solidarietà, che
«esprime molto più che alcuni atti di generosità sporadici». Ogni popolo ha una
sua cultura, e credo che sia il momento di liberarci definitivamente dell’eredità
dell’Illuminismo, che associava la parola cultura a un certo tipo di formazione
intellettuale o di appartenenza sociale. Ogni popolo ha una sua cultura e noi
dobbiamo accettarla così com’è. «È pensare e agire in termini di comunità, di
priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche
lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza
di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far
fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro […]. La solidarietà, intesa nel
suo senso più profondo, è un modo di fare la storia, ed è questo che fanno i
movimenti popolari» (Fratelli tutti, n. 116).
Con queste parole mi rivolgo a voi, partecipanti alla 109a Conferenza
Internazionale del Lavoro, perché come attori istituzionalizzati del mondo del
lavoro avete una grande opportunità d’influire sui processi di cambiamento già in
atto. La vostra responsabilità è grande, ma ancora più grande è il bene che
potete ottenere. Vi invito pertanto a rispondere alla sfida che abbiamo di fronte.
Gli attori stabiliti possono contare sull’eredità della loro storia, che continua a
essere una risorsa di fondamentale importanza, ma in questa fase storica sono
chiamati a restare aperti al dinamismo della società e a promuovere la comparsa
e l’inclusione di attori meno tradizionali e più marginali, portatori di impulsi
alternativi e innovatori.
Chiedo ai dirigenti politici e a quanti lavorano nei governi d’ispirarsi sempre a
quella forma di amore che è la carità politica: «un atto di carità altrettanto
indispensabile [è] l’impegno finalizzato ad organizzare e strutturare la società in
modo che il prossimo non abbia a trovarsi nella miseria. È carità stare vicino a
una persona che soffre, ed è pure carità tutto ciò che si fa, anche senza avere un
contatto diretto con quella persona, per modificare le condizioni sociali che
provocano la sua sofferenza. Se qualcuno aiuta un anziano ad attraversare un
fiume — e questo è squisita carità —, il politico gli costruisce un ponte, e anche
questo è carità. Se qualcuno aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea
per lui un posto di lavoro, ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la
sua azione politica» (Fratelli tutti, n. 186).
Ricordo agli imprenditori la loro vera vocazione: produrre ricchezza al servizio di
tutti. L’attività imprenditoriale è essenzialmente «una nobile vocazione orientata
a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti, Dio ci promuove, si
aspetta da noi che sviluppiamo le capacità che ci ha dato e ha riempito l’universo
di potenzialità. Nei suoi disegni ogni persona è chiamata a promuovere il proprio
sviluppo, e questo comprende l’attuazione delle capacità economiche e
tecnologiche per far crescere i beni e aumentare la ricchezza. Tuttavia, in ogni
caso, queste capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio, dovrebbero
essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento
della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro
diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e
precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione
universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso» (Fratelli
tutti, n. 123). A volte, nel parlare di proprietà privata dimentichiamo che è un
diritto secondario, che dipende da questo diritto primario, che è la destinazione
universale dei beni.
Invito i sindacalisti e i dirigenti delle associazioni dei lavoratori a non lasciarsi
rinchiudere in una “camicia di forza”, a focalizzarsi sulle situazioni concrete dei
quartieri e delle comunità in cui operano, affrontando al tempo stesso questioni
legate alle politiche economiche più vaste e alle “macro-relazioni” [Papa
Francesco, Ai partecipanti all’Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari, 5
novembre 2016]. Anche in questa fase storica, il movimento sindacale ha di
fronte due sfide importantissime. La prima è la profezia, collegata alla natura
stessa dei sindacati, alla loro vocazione più genuina. I sindacati sono
un’espressione del profilo profetico della società. I sindacati nascono e rinascono
ogni volta che, come i profeti biblici, danno voce a quanti non l’hanno,
denunciano quelli che “venderebbero […] il povero per un paio di sandali”, come
dice il profeta (cfr. Amos 2, 6), mettono a nudo i potenti che calpestano i diritti
dei lavoratori più vulnerabili, difendono la causa degli stranieri, degli ultimi e dei
rifiutati. Chiaro, quando un sindacato si corrompe, non può più farlo, e si
trasforma in uno status di pseudo datore di lavoro, a sua volta distanziato dal
popolo.
La seconda sfida: l’innovazione. I profeti sono sentinelle che vigilano dal loro
posto di osservazione. Anche i sindacati devono sorvegliare le mura della città
del lavoro, come una guardia che sorveglia e protegge quanti sono dentro la
città del lavoro, ma che sorveglia e protegge anche quelli che stanno fuori dalle
mura. I sindacati non svolgono la loro funzione fondamentale d’innovazione
sociale se tutelano solo i pensionati. Questo va fatto, ma è la metà del vostro
lavoro. La vostra vocazione è anche di proteggere quanti ancora non hanno
diritti, quanti sono esclusi dal lavoro e che sono esclusi anche dai diritti e dalla
democrazia [Cfr. Alla Confederazione Italiana dei Sindacati dei Lavoratori (Cisl),
28 giugno 2017].
Stimati partecipanti ai processi tripartiti dell’Organizzazione Internazionale del
Lavoro e di questa Conferenza Internazionale del Lavoro, la Chiesa vi sostiene,
cammina al vostro fianco. La Chiesa mette a disposizione le sue risorse, a
cominciare dalle sue risorse spirituali e dalla sua Dottrina Sociale. La pandemia
ci ha insegnato che siamo tutti sulla stessa barca e che solo insieme potremo
uscire dalla crisi.
Grazie.

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PAPA FRANCESCO ANGELUS

Dopo l’Angelus:
Cari fratelli e sorelle!
[…] Questo pomeriggio si svolgerà ad Augusta, in Sicilia, la cerimonia di
accoglienza del relitto della barca naufragata il 18 aprile 2015. Questo simbolo di
tante tragedie del Mar Mediterraneo continui a interpellare la coscienza di tutti e
favorisca la crescita di un’umanità più solidale, che abbatta il muro
dell’indifferenza. Pensiamoci: il Mediterraneo è diventato il cimitero più grande
dell’Europa. […]

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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO IN OCCASIONE DELL’EVENTO DI SOLIDARIETÀ NEL 30o ANNIVERSARIO DEL SISTEMA DELL’INTEGRAZIONE CENTROAMERICANA

Eccellenze, Signore e Signori,
Saluto cordialmente i partecipanti all’Evento di Solidarietà, promosso in
occasione del 30° anniversario del Sistema d’Integrazione Centroamericana, al
quale la Santa Sede partecipa come Osservatore extra-regionale dall’anno 2012.
Questa iniziativa intende mobilitare sostegni per migliorare la situazione delle
persone forzatamente dislocate e delle comunità che le accolgono nella regione
del Centroamerica e del Messico.
La parola solidarietà, che sta al centro di questo evento, acquista un significato
ancora più grande in questa epoca di crisi pandemica, una crisi che ha messo
alla prova il mondo intero, tanto i Paesi poveri quanto quelli ricchi.
La crisi sanitaria, economica e sociale provocata dal covid-19 ha ricordato a tutti
che gli esseri umani sono come la polvere. Ma polvere preziosa agli occhi di Dio
[Cfr. Benedetto XVI, Udienza generale, 17 febbraio 2010], che ci ha costituiti
come un’unica famiglia umana. E come la famiglia naturale educa alla fedeltà,
alla sincerità, alla cooperazione e al rispetto, promuovendo la pianificazione di un
mondo abitabile e a credere nei rapporti di fiducia, persino in condizioni difficili,
così la famiglia delle nazioni è chiamata a rivolgere la sua attenzione comune a
tutti, specialmente ai membri più piccoli e vulnerabili, senza cedere alla logica
della competizione e agli interessi particolari.
In questi ultimi lunghi mesi della pandemia, la regione centroamericana ha visto
il deteriorarsi delle condizioni sociali che erano già precarie e complesse a causa
di un sistema economico ingiusto. Questo sistema logora la famiglia [Cfr.
Incontro con i vescovi centroamericani (Sedac), 24 gennaio 2019], cellula
fondamentale della società. E così le persone «senza il calore di una casa, senza
famiglia, senza comunità, senza appartenenza», si ritrovano sradicate e orfane,
alla mercé di «situazioni fortemente conflittuali e senza rapida soluzione:
violenza domestica, femminicidio […], bande armate e criminali, traffico di
droga, sfruttamento sessuale di minori e non più minori». Questi fattori, uniti
alla pandemia e alla crisi climatica caratterizzata da una siccità sempre più
intensa e da uragani sempre più frequenti, hanno conferito alla mobilità umana
la connotazione di un fenomeno forzato di massa, facendogli assumere l’aspetto
di un esodo regionale.
Nonostante l’innato senso di ospitalità proprio dei popoli del Centroamerica, le
restrizioni sanitarie hanno influito sulla chiusura di molte frontiere. Tanti sono
rimasti a metà strada, senza possibilità di andare avanti o di tornare indietro.
La pandemia ha anche messo in evidenza la fragilità degli sfollati interni, che
ancora «non rientrano nel sistema di protezione internazionale previsto dal
diritto internazionale dei rifugiati» [Dicastero per il Servizio dello Sviluppo
Umano Integrale, Sezione Migranti e Rifugiati, Orientamenti pastorali sugli
sfollati interni, 2020] e spesso restano senza l’adeguata protezione.
Inoltre, nelle diverse fasi del dislocamento, sia interno che esterno, c’è un
numero crescente di casi di tratta di esseri umani, tratta che «è una piaga nel
corpo dell’umanità contemporanea, una piaga nella carne di Cristo. È un delitto
contro l’umanità [Discorso ai partecipanti alla Conferenza Internazionale sulla
tratta delle persone, 10 aprile 2014].
Eccellenze, signore e signori,
Quelle che ho presentato qui sono alcune delle sfide più importanti che
riguardano la mobilità umana, un fenomeno che ha caratterizzato la storia
dell’essere umano e che «porta con sé grandi promesse» [Messaggio in
occasione del colloquio Messico – Santa Sede sulla mobilità umana e lo sviluppo,
14 luglio 2014] per il futuro dell’umanità.
In questo contesto, la Santa Sede, mentre riafferma il diritto esclusivo degli Stati
a gestire i propri confini, si aspetta un impegno regionale comune, solido e
coordinato, destinato a porre la persona e la sua dignità al centro di ogni
esercizio politico. In effetti, «il principio della centralità della persona umana,
[…] ci costringe a mettere sempre la sicurezza personale prima della sicurezza
nazionale […] Le condizioni di migranti, richiedenti asilo e rifugiati richiedono
che sia loro garantita la sicurezza personale e l’accesso ai servizi di base»
[Messaggio per la 104a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, 14
gennaio 2018].
Oltre a queste protezioni, è necessario adottare meccanismi internazionali
specifici che diano una tutela concreta e riconoscano il “dramma spesso
invisibile” degli sfollati interni, relegati «in secondo piano nell’agenda politica» [
Messaggio per la 106a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, 13 maggio
2020] nazionale.
Si devono adottare misure simili rispetto ai nostri numerosi fratelli e sorelle che
si vedono obbligati a fuggire a causa dell’insorgere della grave crisi climatica
[Cfr. Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, Sezione Migranti e
Rifugiati, Orientamenti pastorali sugli sfollati climatici, 2021]. Tali misure devono
essere accompagnate da politiche regionali di protezione della nostra “Casa
comune” volte a lenire l’impatto sia dei fenomeni climatici sia delle catastrofi
ambientali provocate dall’uomo nella sua opera di accaparramento di terre,
deforestazione e appropriazione dell’acqua. Queste violazioni attentano
gravemente contro i tre ambiti fondamentali dello sviluppo umano integrale: la
terra, l’alloggio e il lavoro.
Riguardo alla tratta di persone, occorre prevenire questo flagello mediante il
sostegno alle famiglie e l’educazione, e proteggere le vittime con programmi che
garantiscano la loro sicurezza, «la protezione della privacy, un alloggio sicuro e
un’adeguata assistenza sociale e psicologica» [Dicastero per il Servizio dello
Sviluppo Umano Integrale, Sezione Migranti e Rifugiati, Orientamenti Pastorali
sulla Tratta delle Persone, 2019]. I bambini più piccoli e le donne meritano
un’attenzione speciale. «Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente
offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che
portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio,
nato da donna». Come ha detto san Giovanni Paolo ii, «la donna non può
diventare “oggetto” di “dominio” e di “possesso” maschile». Tutti siamo chiamati
a sostenere un’educazione che promuova l’uguaglianza fondamentale, il rispetto
e l’onore che meritano le donne.
La pandemia ha provocato una «crisi educativa senza precedenti»
[Videomessaggio per il lancio della Missione 4.7 e del Global Compact on
Education, 16 dicembre 2020], aggravata dalle restrizioni e dall’isolamento
forzato che hanno messo in evidenza le disuguaglianze esistenti e hanno
aumentato il rischio che i più vulnerabili cadano nelle reti traditrici del traffico
dentro e fuori i confini nazionali. Dinanzi alle nuove sfide, si deve intensificare la
collaborazione internazionale per prevenire la tratta, proteggere le vittime e
perseguire i delinquenti. Questa azione sinergica trarrà beneficio, in larga
misura, dalla partecipazione delle organizzazioni religiose e delle Chiese locali,
che offrono non solo assistenza umanitaria ma anche accompagnamento
spirituale alle vittime.
In tempi d’incommensurabile sofferenza causata dalla pandemia, dalla violenza e
dai disastri ambientali, la dimensione spirituale non può né deve essere relegata
a una posizione secondaria rispetto alla tutela della salute fisica. «La condizione
per costruire società inclusive è in una comprensione complessiva della persona
umana, che si sente veramente accolta quando tutte le dimensioni che
costituiscono la sua identità sono riconosciute e accolte, compresa quella
religiosa» [Discorso ai membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa
Sede, 8 gennaio 2018].
Eccellenze, signore e signori,
di fronte a tante sfide pressanti, vale anche per questa regione l’appello sincero
a costruire una società «umana e fraterna […] in grado di adoperarsi per
assicurare in modo efficiente e stabile che tutti siano accompagnati nel percorso
della loro vita» [Lettera Enciclica Fratelli tutti, 3 ottobre 2020, n. 110]. Si tratta
di uno sforzo congiunto che va al di là delle frontiere nazionali per permettere lo
scambio regionale: «L’integrazione culturale, economica e politica con i popoli
circostanti dovrebbe essere accompagnata da un processo educativo che
promuova il valore dell’amore per il vicino, primo esercizio indispensabile per
ottenere una sana integrazione universale».
La cooperazione multilaterale è uno strumento prezioso per promuovere il bene
comune, prestando speciale attenzione alle profonde e nuove cause delle
persone forzatamente dislocate, di modo che «i confini non siano zone di
tensione, ma braccia aperte di riconciliazione» [San Giovanni Paolo II, Omelia, 6
marzo 1983]. Oggi «siamo […] di fronte alla scelta tra una delle due possibili
strade: una porta al rafforzamento del multilateralismo […]; l’altro privilegia
atteggiamenti di autosufficienza, nazionalismo, protezionismo, individualismo e
isolamento, tralasciando i più poveri, i più vulnerabili, gli abitanti delle periferie
esistenziali».
La Chiesa cammina insieme ai popoli del Centroamerica, che hanno saputo
affrontare le crisi con coraggio ed essere comunità che accolgono [Cfr. Messaggio
per la 107a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, 3 maggio 2021] e li
esorta a perseverare nella solidarietà con fiducia reciproca e speranza audace.
Vi ringrazio di cuore e invoco su tutti voi e sulle nazioni che rappresentate la
Benedizione del Signore.

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI GIOVANI DEL “PROGETTO POLICORO” DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

(…) Il secondo verbo è abitare. Vi chiediamo di mostrarci che è possibile abitare
il mondo senza calpestarlo – è importante questo –: sarebbe una bella conquista
per tutti! Abitare la terra non vuol dire prima di tutto possederla, no, ma saper
vivere in pienezza le relazioni: relazioni con Dio, relazioni con i fratelli, relazioni
con il creato e con noi stessi (Lett. enc. Laudato si’, 210). Vi esorto ad amare i
territori in cui Dio vi ha posti, evitando la tentazione di fuggire altrove. Anzi,
proprio le periferie possono diventare laboratori di fraternità. Dalle periferie
spesso nascono esperimenti di inclusione: «da tutti, infatti, si può imparare
qualcosa, nessuno è inutile, nessuno è superfluo» (Lett. enc. Fratelli tutti, 215).
Possiate aiutare la comunità cristiana ad abitare la crisi della pandemia con
coraggio e con speranza. Dio non ci abbandona mai e noi possiamo diventare
segno della sua misericordia se sappiamo chinarci sulle povertà del nostro
tempo: sui giovani che non trovano lavoro, i cosiddetti Neet, su quelli che
soffrono la depressione, su quelli demotivati, su quelli stanchi nella vita, su quelli
che hanno smesso di sognare un mondo nuovo. E ci sono giovani che hanno
smesso di sognare. È triste, perché la vocazione di un giovane è sognare. Il
Servo di Dio Giorgio La Pira sosteneva che la disoccupazione è «uno sperpero di
forze produttive». [L’attesa della povera gente, LEF, Firenze 1978, 20] (…)