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DISCOURS DU SAINT-PÈRE FRANÇOIS AUX DIRIGEANTS ET DÉLÉGUÉS DE CONFÉDÉRATION GÉNÉRALE ITALIENNE DU TRAVAIL (CGIL)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Vi do il benvenuto e ringrazio il Segretario Generale per le sue parole. Questo
incontro con voi, che formate una delle storiche organizzazioni sindacali italiane, mi
invita ad esprimere ancora una volta la mia vicinanza al mondo del lavoro, in
particolare alle persone e alle famiglie che fanno più fatica.
Non c’è sindacato senza lavoratori e non ci sono lavoratori liberi senza sindacato.
Viviamo un’epoca che, malgrado i progressi tecnologici – e a volte proprio a causa
di quel sistema perverso che si definisce tecnocrazia (cfr Laudato si’, 106-114) – ha
in parte deluso le aspettative di giustizia in ambito lavorativo. E questo chiede
anzitutto di ripartire dal valore del lavoro, come luogo di incontro tra la vocazione
personale e la dimensione sociale. Lavorare permette alla persona di realizzare sé
stessa, di vivere la fraternità, di coltivare l’amicizia sociale e di migliorare il mondo.
Le Encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti possono aiutare a intraprendere percorsi
formativi che offrano motivi di impegno nel tempo che stiamo vivendo.
Il lavoro costruisce la società. Esso è un’esperienza primaria di cittadinanza, in cui
trova forma una comunità di destino, frutto dell’impegno e dei talenti di ciascuno;
tale comunità è molto di più della somma delle diverse professionalità, perché
ognuno si riconosce nella relazione con gli altri e per gli altri. E così, nella trama
ordinaria delle connessioni tra le persone e i progetti economici e politici, si dà vita
giorno per giorno al tessuto della “democrazia”. È un tessuto che non si confeziona
a tavolino in qualche palazzo, ma con operosità creativa nelle fabbriche, nelle
officine, nelle aziende agricole, commerciali, artigianali, nei cantieri, nelle pubbliche
amministrazioni, nelle scuole, negli uffici, e così via. Viene “dal basso”, dalla realtà.
Cari amici, se richiamo questa visione, è perché tra i compiti del sindacato c’è
quello di educare al senso del lavoro, promuovendo una fraternità tra i lavoratori.
Non può mancare questa preoccupazione formativa. Essa è il sale di un’economia
sana, capace di rendere migliore il mondo. In effetti, «i costi umani sono sempre
anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi

umani. Rinunciare ad investire sulle persone per ottenere un maggior profitto
immediato è un pessimo affare per la società» (Enc. Laudato si’, 128).
Accanto alla formazione, è sempre necessario segnalare le storture del lavoro. La
cultura dello scarto si è insinuata nelle pieghe dei rapporti economici e ha invaso
anche il mondo del lavoro. Lo si riscontra ad esempio là dove la dignità umana
viene calpestata dalle discriminazioni di genere – perché una donna deve
guadagnare meno di un uomo? Perché una donna, appena si vede che incomincia a
“ingrassare”, la mandano via per non pagare la maternità? –; lo si vede nel
precariato giovanile – perché si devono ritardare le scelte di vita a causa di una
precarietà cronica? –; o ancora nella cultura dell’esubero; e perché i lavori più
usuranti sono ancora così poco tutelati? Troppe persone soffrono per la mancanza di
lavoro o per un lavoro non dignitoso: i loro volti meritano l’ascolto, meritano
l’impegno sindacale.
Vorrei condividere con voi in modo particolare alcune preoccupazioni. In primo
luogo, la sicurezza dei lavoratori. Il vostro Segretario generale ne ha parlato. Ci
sono ancora troppi morti – li vedo sui giornali: tutti i giorni c’è qualcuno –, troppi
mutilati e feriti nei luoghi di lavoro! Ogni morte sul lavoro è una sconfitta per
l’intera società. Più che contarli al termine di ogni anno, dovremmo ricordare i loro
nomi, perché sono persone e non numeri. Non permettiamo che si mettano sullo
stesso piano il profitto e la persona! L’idolatria del denaro tende a calpestare tutto e
tutti e non custodisce le differenze. Si tratta di formarsi ad avere a cuore la vita dei
dipendenti e di educarsi a prendere sul serio le normative di sicurezza: solo una
saggia alleanza può prevenire quegli “incidenti” che sono tragedie per le famiglie e
le comunità.
Una seconda preoccupazione è lo sfruttamento delle persone, come se fossero
macchine da prestazione. Ci sono forme violente, come il caporalato e la schiavitù
dei braccianti in agricoltura o nei cantieri edili e in altri luoghi di lavoro, la
costrizione a turni massacranti, il gioco al ribasso nei contratti, il disprezzo della
maternità, il conflitto tra lavoro e famiglia. Quante contraddizioni e quante guerre
tra poveri si consumano intorno al lavoro! Negli ultimi anni sono aumentati i
cosiddetti “lavoratori poveri”: persone che, pur avendo un lavoro, non riescono a
mantenere le loro famiglie e a dare speranza per il futuro. Il sindacato – ascoltate
bene questo – è chiamato ad essere voce di chi non ha voce. Voi dovete fare
rumore per dare voce a chi non ha voce. In particolare, vi raccomando l’attenzione
per i giovani, spesso costretti a contratti precari, inadeguati, anche schiavizzanti. Vi
ringrazio per ogni iniziativa che favorisce politiche attive del lavoro e tutela la
dignità delle persone.
Inoltre, in questi anni di pandemia è cresciuto il numero di coloro che presentano le
dimissioni dal lavoro. Giovani e meno giovani sono insoddisfatti della loro

professione, del clima che si respira negli ambienti lavorativi, delle forme
contrattuali, e preferiscono rassegnare le dimissioni. Si mettono in cerca di altre
opportunità. Questo fenomeno non dice disimpegno, ma la necessità di umanizzare
il lavoro. Anche in questo caso, il sindacato può fare opera di prevenzione,
puntando alla qualità del lavoro e accompagnando le persone verso una
ricollocazione più confacente al talento di ciascuno.
Cari amici, vi invito ad essere “sentinelle” del mondo del lavoro, generando alleanze
e non contrapposizioni sterili. La gente ha sete di pace, soprattutto in questo
momento storico, e il contributo di tutti è fondamentale. Educare alla pace anche
nei luoghi di lavoro, spesso segnati da conflitti, può diventare segno di speranza per
tutti. Anche per le future generazioni.
Grazie per quello che fate e che farete per i poveri, i migranti, le persone fragili e
con disabilità, i disoccupati. Non tralasciate di prendervi cura anche di chi non si
iscrive al sindacato perché ha perso la fiducia; e di fare spazio alla responsabilità
giovanile.
Vi affido alla protezione di San Giuseppe, che ha conosciuto la bellezza e la fatica di
fare bene il proprio mestiere e la soddisfazione di guadagnare il pane per la
famiglia. Guardiamo a lui e alla sua capacità di educare attraverso il lavoro. Auguro
un Natale sereno a tutti voi e ai vostri cari. Il Signore vi benedica e la Madonna vi
custodisca. E se potete, pregate per me. Grazie!

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SALUTATION DU SAINT-PÈRE FRANÇOIS AUX ARTISTES DU CONCERT DE NOËL 2022

Cari amici, buongiorno e benvenuti, e grazie tante per gli auguri che mi avete dato,
grazie!
Vi ringrazio per aver scelto di dedicare questa edizione del Concerto di Natale al
tema della pace. La pace è la sintesi di tutte le cose buone che possiamo desiderare
e per essa vale la pena di spendere il meglio delle nostre energie materiali,
intellettuali e spirituali.
La pace, lo sappiamo, si costruisce giorno per giorno, è un desiderio che
accompagna e motiva il nostro vivere quotidiano. Ma purtroppo, in questo momento
storico, la pace è anche un’emergenza, come dice lo slogan che promuove il
progetto solidale abbinato al Concerto. In Ucraina, i salesiani di “Missioni Don
Bosco” sono accanto alle popolazioni, lavorano per l’accoglienza dei rifugiati e per la
distribuzione di cibo e medicinali. Con questa iniziativa li vogliamo sostenere; ma
tutti noi, in qualsiasi ruolo, siamo chiamati ad essere artigiani di pace, a pregare e a
lavorare per la pace.
L’adesione di tanti artisti a questo progetto testimonia la volontà di partecipare alla
solidarietà con i fratelli e le sorelle che soffrono per la guerra, e che il Natale ci
invita a sentire più vicini. In effetti, il messaggio che la Parola di Dio ogni anno ci
rivolge nel tempo di Avvento non è un messaggio di rassegnazione o di tristezza,
ma un messaggio di speranza e di gioia, un messaggio da interiorizzare e da
comunicare. E in questo “comunicare” entrano in gioco anche la musica e il canto.
La liturgia e le tradizioni popolari del Natale sono piene di musica e di canti. Lo
stesso racconto evangelico ci parla dell’inno degli angeli: «Gloria a Dio nel più alto
dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,14).
Con il vostro canto, voi contribuite a diffondere questo messaggio di amore e di
vita, arrivando a toccare tanti cuori e allargando il perimetro della fraternità. È così
che Dio opera nella storia umana, anche in scenari dolorosi e desolati: con
misericordia chiama tutti noi, si serve dei nostri talenti come dei nostri limiti, e
vuole salvare l’umanità di oggi. Come a Natale, ogni giorno!

Cari amici, il vostro talento è un dono ed è anche una responsabilità, di cui essere
grati e consapevoli, mentre – come scrisse agli artisti San Giovanni Paolo II – «con
appassionata dedizione cercate nuove epifanie della bellezza per farne dono al
mondo» (Lettera agli artisti, 4 aprile 1999). La musica rasserena, dispone al
dialogo, favorisce l’incontro e l’amicizia. In questo senso è una via aperta per la
pace.
Vi ringrazio di essere venuti. Faccio i migliori auguri a voi e ai vostri cari. Vi do la
mia benedizione di cuore e chiedo a Dio che vi benedica. E per favore, non
dimenticatevi di pregare per me. Grazie!

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MESSAGE DU SAINT-PÈRE FRANÇOIS AUX PARTICIPANTS À LA HUITIÈME CONFÉRENCE « ROME MED DIALOGUES »

Distingués Mesdames et Messieurs !
Un salut cordial à vous tous à l’occasion de la VIII Conférence Rome MED
Dialogues, qui est depuis plusieurs années un rendez-vous promu par le ministère
italien des Affaires étrangères et de la Coopération internationale et par l’Institut
d’études politiques internationales, afin de promouvoir politiques partagées dans
l’espace méditerranéen.
La méthode de cette Conférence est significative et importante en elle-même, à
savoir l’engagement dans le dialogue, la discussion, la réflexion commune, la
recherche de solutions ou même simplement des approches coordonnées vers celles
qui sont – et ne peuvent être – que les intérêts communs des peuples qui, dans la
diversité de leurs cultures respectives, négligent la mare nostrum. Une mer qui,
dans son histoire de terrarum moyen, a une vocation de progrès, de développement
et de culture qui semble malheureusement s’être perdue dans un passé récent et
qu’il faut retrouver pleinement et avec conviction.
En fait, la Méditerranée a le grand potentiel de mettre en contact trois continents :
un lien qui historiquement, aussi à travers la migration, a été extrêmement
fructueux. L’Afrique, l’Asie et l’Europe y sont limitrophes, mais on oublie trop
souvent que les lignes qui délimitent sont aussi celles qui relient, et que
l’ambivalence du terme « frontière » peut aussi faire allusion à un objectif commun
: cum-finis. C’est un aspect dont les civilisations qui nous ont précédés et dont la
Méditerranée a été le berceau étaient bien conscientes. Force est de constater avec
regret que cette même mer, aujourd’hui, peine à être vécue comme un lieu de
rencontre, d’échange, de partage et de collaboration. Pourtant, en même temps,
c’est précisément à ce carrefour de l’humanité que de nombreuses opportunités
nous attendent. Il faut donc reprendre la culture de la rencontre dont nous avons
tant profité, et pas seulement par le passé. De cette manière, il sera possible de
reconstruire un sentiment de fraternité, en développant, outre des relations
économiques plus justes, des relations plus humaines, y compris avec les migrants.

Cette Conférence a l’avantage de relancer la centralité de la Méditerranée, à travers
des débats sur un agenda particulièrement riche en sujets, qui vont des enjeux
géopolitiques et sécuritaires, à la protection des libertés humaines fondamentales,
au défi des migrations, au changement climatique et la crise environnementale.
L’importance et la multiplicité des sujets soumis à votre réflexion appellent une
considération fondamentale. Cette variété est elle-même déjà significative de
l’indissociabilité des thématiques éthico-sociales des multiples situations de crise
géopolitique et aussi des problèmes environnementaux eux-mêmes. L’idée
d’aborder les problèmes individuels de manière sectorielle, séparément et
indépendamment des autres est, en ce sens, une pensée trompeuse. En fait, cela
comporte le risque d’arriver à des solutions partielles, défectueuses, qui non
seulement ne résolvent pas les problèmes mais les rendent chroniques.
Je pense notamment à l’incapacité de trouver des solutions communes à la mobilité
humaine dans la région, qui continue d’entraîner des pertes humaines inacceptables
et presque toujours évitables, notamment en Méditerranée. La migration est
essentielle au bien-être de cette région et ne peut être arrêtée. Par conséquent, il
est dans l’intérêt de toutes les parties de trouver une solution qui intègre les
différents aspects et les bonnes instances, qui soit bénéfique pour tous, qui
garantisse à la fois la dignité humaine et une prospérité partagée.
L’interconnexion des problèmes exige qu’ils soient examinés ensemble, dans une
vision coordonnée et la plus large possible, comme cela a déjà émergé
massivement lors de la crise pandémique, une autre confirmation claire que
personne n’est sauvé seul.
Cette mondialisation des problèmes réapparaît aujourd’hui à propos du dramatique
conflit guerrier en cours au sein de l’Europe, entre la Russie et l’Ukraine, d’où, outre
les dégâts incalculables de chaque guerre en termes de victimes civiles et militaires,
la crise énergétique, la crise financière, la crise humanitaire pour tant d’innocents
contraints de quitter leur foyer et de perdre leurs biens les plus chers et, enfin, la
crise alimentaire, qui touche un nombre croissant de personnes partout dans le
monde, en particulier dans les pays les plus pauvres. Le conflit ukrainien produit en
effet d’énormes répercussions dans les pays d’Afrique du Nord, qui dépendent à
80% du blé d’Ukraine ou de Russie. Cette crise nous pousse à considérer l’ensemble
de la situation réelle dans une perspective globale, tout comme ses effets sont
globaux. Ainsi, de même qu’il n’est pas possible de penser affronter la crise
énergétique en dehors de la crise politique, on ne peut en même temps résoudre la
crise alimentaire en dehors de la persistance des conflits, ou la crise climatique sans
prendre en considération le problème migratoire, ou le sauvetage des économies les
plus fragiles ou encore la protection des libertés fondamentales. Elle ne peut pas
non plus être prise en considération détourner l’attention de l’immensité de la

souffrance humaine sans tenir compte de la crise sociale dans laquelle, à des fins
économiques ou politiques, la valeur de la personne humaine est diminuée et les
droits de l’homme bafoués.
Nous devons tous prendre de plus en plus conscience que le cri de notre planète
meurtrie est inséparable du cri de l’humanité souffrante. À cet égard, les paroles
dictées il y a environ deux mille ans par saint Paul dans la Lettre aux Romains
résonnent plus que jamais d’actualité, où il présente le destin commun de
l’humanité et de la création, qui – dit l’Apôtre – nourrit l’espoir d’être libéré de
l’esclavage de la corruption, pour entrer dans la liberté de la gloire des enfants de
Dieu, devant laquelle toute la création gémit et souffre dans les affres de
l’enfantement jusqu’à ce jour (voir 8:21-22).
Ce n’est pas seulement un objectif d’un autre monde, mais aussi l’horizon de
l’engagement d’hommes et de femmes de bonne volonté. Qu’elle soit aussi l’horizon
de vos dialogues ! Avec ce souhait, je vous souhaite un travail serein et fructueux,
assurant ma prière pour cela et invoquant la bénédiction de Dieu sur vous tous.

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DISCOURS DU PAPE FRANÇOIS AUX RESEAU NATIONAL DES ECOLES POUR LA PAIX ITALIENNES

Je suis heureux que vous ayez répondu avec enthousiasme à l’invitation du Réseau
national des écoles pour la paix. Merci d’être venus. Et merci à tous ceux qui ont
organisé cette rencontre, en particulier à M. Lotti.
Je vous félicite, étudiants et éducateurs, pour le riche programme d’activités et de
formation que vous avez entrepris, qui culminera avec la Marche Pérouse-Assise au
mois de mai de l’année prochaine, où vous aurez l’occasion de présenter les
résultats de votre travail et vos propositions.
Assise est devenue désormais un centre mondial de promotion de la paix, grâce à la
figure charismatique de ce jeune assisien insouciant et rebelle nommé François, qui
a quitté sa famille et ses richesses pour suivre le Seigneur et épouser Mère
pauvreté. Ce jeune rêveur est encore aujourd’hui une source d’inspiration pour ce
qui concerne la paix, la fraternité, l’amour pour les pauvres, l’écologie, l’économie.
Tout au long des siècles, saint François a fasciné beaucoup de personnes, tout
comme il m’a fasciné moi aussi qui, en tant que Pape, ai voulu prendre son nom.
Votre programme éducatif «Pour la paix, avec le soin» veut répondre à l’appel pour
un Pacte éducatif global, que j’ai adressé il y a trois ans à tous ceux qui travaillent
dans le domaine éducatif, afin qu’ils «se fassent les promoteurs des valeurs de soin,
de paix, de justice, de bien, de beauté, d’accueil de l’autre et de fraternité»
(Message vidéo du 15 octobre 2020). Et je me réjouis de voir que non seulement
les écoles, les universités et les organisations catholiques répondent à cet appel,
mais aussi des institutions publiques, laïques et d’autres religions.
Pour qu’il y ait la paix, comme le dit bien votre devise, il faut «prendre soin». Nous
parlons souvent de paix lorsque nous nous sentons directement menacés, comme
dans le cas d’une éventuelle attaque nucléaire ou d’une guerre menée à nos portes.
De la même manière que nous nous intéressons aux droits des migrants lorsque
nous avons de la famille ou des amis émigrés. En réalité, la paix nous concerne
toujours! Comme toujours, nous nous préoccupons de l’autre, de notre frère, de
notre sœur, et nous devons prendre soin de celui-ci, de celle-là.

Un modèle par excellence du fait de prendre soin est le samaritain de l’Evangile, qui
a secouru un inconnu qu’il a trouvé blessé le long de la route. Le samaritain ne
savait pas si ce malheureux était une bonne personne ou un bandit, s’il était riche
ou pauvre, instruit ou ignorant, juif, samaritain comme lui ou étranger; il ne savait
pas si ce malheur «l’avait cherché» ou non. L’Evangile dit: «Il le vit et eut
compassion» (Lc 10, 33). Il le vit et eut de la compassion. D’autres, avant lui,
avaient vu cet homme, mais ils avaient poursuivi leur chemin. Le samaritain ne
s’est pas posé beaucoup de questions, il a suivi le mouvement de la compassion.
Même à notre époque, nous pouvons rencontrer de bons témoignages de personnes
ou d’institutions qui travaillent pour la paix et prennent soin de ceux qui sont dans
le besoin. Pensons par exemple à ceux qui ont reçu le prix Nobel de la paix, mais
aussi à de nombreux inconnus qui œuvrent dans le silence pour cette cause.
Aujourd’hui, je voudrais évoquer deux figures de témoins. La première est celle de
saint Jean XXIII. Il a été appelé le «bon Pape», et aussi le «Pape de la paix», parce
que dans ces débuts difficiles des années 60 marqués par de fortes tensions — la
construction du mur de Berlin, la crise de Cuba, la guerre froide et la menace
nucléaire — il a publié la célèbre et prophétique encyclique Pacem in terris. L’année
prochaine, on fêtera ses 60 ans, et elle est tout à fait d’actualité! Le Pape Jean
s’adresse à tous les hommes de bonne volonté, demandant la résolution pacifique
de toutes les guerres à travers le dialogue et le désarmement. C’était un appel qui
avait reçu une grande attention dans le monde, bien au-delà de la communauté
catholique, parce qu’il avait touché un besoin de toute l’humanité, qui est encore
celui d’aujourd’hui. C’est pourquoi je vous invite à lire et étudier Pacem in terris à
suivre cette voie pour défendre et diffuser la paix.
Quelques mois après la publication de cette encyclique, un autre prophète de notre
époque, Martin Luther King, prix Nobel de la paix en 1964, a prononcé le discours
historique dans lequel il a dit: «J’ai un rêve». Dans un contexte américain fortement
marqué par les discriminations raciales, il avait fait rêver tout le monde avec l’idée
d’un monde de justice, de liberté et d’égalité. Il avait dit: «J’ai un rêve: que mes
quatre jeunes enfants vivent un jour dans un pays où ils ne seront pas jugés pour
la couleur de leur peau, mais pour la dignité de leur personne». […]

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DISCOURS DU PAPE FRANÇOIS AUX MEMBRES DE LA DIRECTION CENTRALE ANTI-CRIME DE LA POLICE D’ETAT ITALIENNE

[…] Chers amis, comme je vous le disais, je suis reconnaissant que notre
rencontre attire l’attention sur la Journée internationale de cette année, qui appelle
à s’unir pour combattre ensemble toute forme de violence à l’égard des femmes.
En effet, pour gagner cette bataille, il ne suffit pas d’un corps spécialisé, aussi
efficace soit-il; la lutte contre ce phénomène et les nécessaires mesures répressives
ne suffisent pas. Il faut s’unir, collaborer, faire réseau: et pas seulement un réseau
défensif, mais surtout un réseau préventif! C’est toujours décisif lorsque l’on
cherche à éliminer un fléau social qui est également lié à des attitudes culturelles, à
des mentalités et à des préjugés enracinés.
Donc, par votre présence, qui peut parfois devenir un témoignage, vous agissez
aussi comme un stimulant dans le corps social: un stimulant à réagir, à ne pas se
résigner, à agir. Il s’agit avant tout — disions-nous — d’une action de prévention.
Pensons aux familles. Nous avons vu que la pandémie, avec l’isolement forcé, a
malheureusement exacerbé certaines dynamiques à l’intérieur des murs
domestiques. Elle les a exacerbées, pas créées: il s’agit en effet de tensions
souvent latentes, qui peuvent être résolues de façon préventive au niveau éducatif.
C’est, dirais-je le mot-clé: éducation. Et ici, la famille ne peut pas être laissée seule.
Si les effets de la crise économique et sociale retombent en grande partie sur les
familles, et qu’elles ne sont pas suffisamment soutenues, il ne faut pas s’étonner
que, là, dans le milieu domestique, fermé, avec tant de problèmes, certaines
tensions éclatent. Et c’est sur ce point que la prévention est nécessaire.
Un autre aspect décisif: si dans les médias on propose continuellement des
messages qui alimentent une culture hédoniste et consumériste, où les modèles,
tant masculins que féminins, obéissent aux critères du succès, de l’affirmation
personnelle, de la compétition, du pouvoir d’attirer l’autre et de le dominer, ici
aussi, nous ne pouvons pas ensuite, de manière hypocrite, nous désoler face à
certains faits divers.
Ce type de conditionnement culturel se heurte à une action éducative qui place au
centre la personne, avec sa dignité. Il me vient à l’esprit une sainte de notre temps:

sainte Joséphine Bakhita. Vous savez que l’œuvre ecclésiale qui travaille aux côtés
des femmes victimes de la traite porte son nom. Sœur Joséphine Bakhita a subi
dans son enfance et sa jeunesse de graves violences; elle l’a rachetée pleinement
en accueillant l’Evangile de l’amour de Dieu et est devenue témoin de sa force
libératrice et guérissante. Mais elle n’est pas la seule: il y a beaucoup de femmes,
dont certaines sont des «saintes de la porte d’à côté», qui ont été guéries par la
miséricorde, par la tendresse du Christ, et à travers leur vie elles témoignent qu’il
ne faut pas se résigner, que l’amour, la proximité, la solidarité des sœurs et des
frères peut sauver de l’esclavage. C’est pourquoi je dis: aux jeunes filles et garçons
d’aujourd’hui, nous proposons ces témoignages. Dans les écoles, dans les groupes
sportifs, dans les aumôneries, dans les associations, présentons de vraies histoires
de libération et de guérison, des histoires de femmes qui sont sorties du tunnel de
la violence et peuvent aider à ouvrir les yeux sur les embûches, les pièges, les
dangers cachés derrière les faux modèles de succès.
Chers amis, j’accompagne mon double «merci» de ma prière pour vous et pour
votre travail. Que la Vierge Marie et sainte Bakhita intercèdent pour vous. Je vous
bénis tous de tout cœur, vous et vos familles. Et je vous demande s’il vous plaît de
prier pour moi. Merci.

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DISCOURS DU PAPE FRANÇOIS AUX JEUNES CATHOLIQUES DE BELGIQUE

[…] Comme ambassadeurs de la jeunesse belge pour les préparatifs des Journées
Mondiales de la jeunesse au Portugal en 2023, je vous invite à cultiver la proximité
à tous les jeunes, particulièrement à ceux qui vivent dans des situations précaires,
aux jeunes migrants et réfugiés, aux jeunes de la rue, sans oublier les autres,
surtout ceux qui font l’expérience d’une vie de solitude et de tristesse. […]

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DISCOURS DU SAINT-PÈRE FRANÇOIS AUX PÈLERINS CONVENTÉS POUR LA CANONISATION DE SAN GIOVANNI BATTISTA SCALABRINI

Please note that this document is an unofficial translation and is provided for
reference only.

Chers frères et sœurs, bonjour et bienvenue !
Tous faire la fête, non? Je remercie le Père Chiarello pour les paroles de salutation
et d’introduction. Je suis heureux de pouvoir être un moment avec vous, qui avez
participé hier à la célébration eucharistique et à la canonisation du bienheureux
Giovanni Battista Scalabrini. Vous êtes une assemblée très diversifiée – c’est
magnifique ! – : il y a des missionnaires, des religieuses missionnaires, des
missionnaires séculiers et des laïcs scalabriniens ; il y a les fidèles des diocèses de
Côme et Plaisance ; et puis il y a des migrants de plein de pays, une belle « salade
de fruits », et c’est beau. Ainsi, vous représentez bien l’ampleur de l’œuvre de Mgr
Scalabrini, l’ouverture de son cœur, pour laquelle, pour ainsi dire, un diocèse ne
suffisait pas.
D’une grande importance était son apostolat en faveur des émigrants italiens. A
cette époque, des milliers de personnes partaient pour les Amériques. Mgr
Scalabrini les regardait avec le regard du Christ dont nous parle l’Evangile ; par
exemple, Matthieu écrit : « En voyant les foules, il eut de la compassion pour elles,
car elles étaient fatiguées et épuisées comme des brebis sans berger » (9:36). Et il
s’est soucié d’une grande charité et d’une intelligence pastorale pour leur assurer
une assistance matérielle et spirituelle adéquate.
Aujourd’hui encore, la migration est un défi très important. Ils soulignent l’urgence
de mettre la fraternité avant le rejet, la solidarité avec l’indifférence. Aujourd’hui,
chaque baptisé est appelé à refléter le regard de Dieu vers ses frères et sœurs
migrants et réfugiés – ils sont nombreux -, à laisser son regard élargir notre regard,
grâce à la rencontre avec l’humanité en chemin, à travers une proximité concrète,
selon l’exemple de l’évêque Scalabrini.
Nous sommes appelés aujourd’hui à vivre et à diffuser la culture de la rencontre,
une rencontre égalitaire entre les migrants et le peuple du pays qui les accueille.

C’est une expérience enrichissante, car elle révèle la beauté de la diversité. Et elle
est aussi fructueuse, car la foi, l’espérance et la ténacité des migrants peuvent être
un exemple et un aiguillon pour ceux qui veulent s’engager à construire un monde
de paix et de bien-être pour tous. Et pour que ce soit pour tout le monde, tu le sais
bien, il faut commencer par le dernier : si tu ne commences pas par le dernier, ce
n’est pas pour tout le monde. Comme dans les randonnées en montagne : si le
premier court, le groupe se dissout, et le premier éclate au bout d’un moment ; si,
au contraire, vous suivez le rythme des derniers, vous montez tous ensemble. C’est
une règle de sagesse. Quand nous marchons, quand nous pèlerinons, nous devons
toujours suivre les traces des plus petits.
Pour favoriser la fraternité et l’amitié sociale, nous sommes tous appelés à être
créatifs, à sortir des sentiers battus. Nous sommes appelés à ouvrir de nouveaux
espaces, où l’art, la musique et le vivre ensemble deviennent des outils de
dynamique interculturelle, où l’on peut savourer la richesse de la rencontre de la
diversité.
C’est pourquoi je vous exhorte, missionnaires scalabriniens, à vous laisser toujours
inspirer par votre Saint Fondateur, père des migrants, de tous les migrants. Que
son charisme renouvelle en vous la joie d’être avec les migrants, d’être à leur
service, et de le faire avec foi, animés par l’Esprit Saint, dans la conviction qu’en
chacun d’eux nous rencontrons le Seigneur Jésus. avoir le style de la gratuité
généreuse, ne pas épargner les ressources physiques et économiques pour
promouvoir les migrants de manière intégrale ; et cela vous aide aussi à travailler
en communion d’objectifs, en famille, unie dans la diversité.
Chers frères et sœurs, que la sainteté de Giovanni Battista Scalabrini nous « infecte »
du désir d’être des saints, chacun d’une manière originale et unique, comme
l’imagination infinie de Dieu nous a créés et l’exige. Et son intercession nous donne
la joie , et donne-nous l’espérance de marcher ensemble vers la nouvelle
Jérusalem, qui est une symphonie de visages et de peuples, vers le Royaume de
justice, de fraternité et de paix.
Merci d’être venu partager votre fête ! Je vous bénis cordialement ainsi que tous
vos compagnons de voyage là où vous vivez. Et s’il vous plaît, n’oubliez pas de prier
pour moi. Merci!

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SAINTE MESSE ET CANONISATION DES BIENHEUREUX JEAN BAPTISTE SCALABRINI ET ARTEMIDE ZATTI

Alors que Jésus est en chemin, dix lépreux viennent à sa rencontre en criant : « Aie
pitié de nous » (Lc 17, 13). Les dix sont guéris, mais un seul d’entre eux revient
pour remercier Jésus : c’est un Samaritain, une sorte d’hérétique pour les juifs. Au
début, ils marchent ensemble, mais ensuite ce Samaritain fait la différence lorsqu’il
revient « en louant Dieu à haute voix » (v. 15). Arrêtons-nous sur ces deux aspects
que nous pouvons recueillir dans l’Évangile d’aujourd’hui : marcher ensemble et
rendre grâce.
Tout d’abord, marcher ensemble. Au début du récit, il n’y a aucune différence entre
le Samaritain et les neuf autres. On parle simplement de dix lépreux, qui font
groupe et, sans division, vont à la rencontre de Jésus. La lèpre, comme nous le
savons, n’était pas seulement un fléau physique – qu’aujourd’hui encore nous
devons nous efforcer d’éradiquer – mais aussi une « maladie sociale », car à l’époque,
par peur de la contamination, les lépreux devaient rester en dehors de la
communauté (cf. Lv 13, 46). Par conséquent, ils ne pouvaient pas entrer dans les
centres habités, ils étaient tenus à l’écart, relégués en marge de la vie sociale et
même religieuse, isolés. Marchant ensemble, ces lépreux expriment leur désarroi
contre une société qui les exclut. Et notons bien : le Samaritain, même s’il est
considéré comme un hérétique, un « étranger », fait groupe avec les autres. Frères et
sœurs, la maladie et la fragilité communes font tomber les barrières et dépasser
toute exclusion.
C’est une belle image pour nous aussi : si nous sommes honnêtes avec
nous-mêmes, nous nous rappelons que nous sommes tous malades dans le cœur,
que nous sommes tous pécheurs, tous dans le besoin de la miséricorde du Père. Et
nous cessons alors de nous diviser sur la base des mérites, des rôles que nous
jouons ou de tout autre aspect extérieur de la vie, et les murs intérieurs tombent,
les préjugés tombent. Alors, enfin, nous nous redécouvrons frères. Naaman le
syrien aussi – nous le rappelle la première Lecture – bien que riche et puissant, a
dû, pour être guéri, faire une chose simple : se plonger dans le fleuve dans lequel
tous les autres se baignaient. Il a dû d’abord enlever son armure, ses vêtements
(cf. 2 R 5) : comme il est bon pour nous d’enlever nos armures extérieures, nos

barrières défensives, et prendre un bon bain d’humilité, en nous rappelant que nous
sommes tous fragiles à l’intérieur, que nous avons tous besoin de guérison, tous
frères. Rappelons-nous ceci : la foi chrétienne nous demande toujours de marcher
ensemble avec les autres, jamais d’être des marcheurs solitaires ; elle nous invite
toujours à sortir de nous-mêmes vers Dieu et vers nos frères et sœurs, jamais de
nous refermer sur nous-mêmes ; elle nous demande toujours de reconnaître que
nous avons besoin de guérison et de pardon, et de partager les fragilités de ceux
qui nous entourent, sans nous sentir supérieurs.
Frères et sœurs, vérifions si dans notre vie, dans nos familles, dans les lieux où
nous travaillons et que nous fréquentons chaque jour, nous sommes capables de
marcher ensemble avec les autres, nous sommes capables d’écouter, de surmonter
la tentation de nous barricader dans notre autoréférence et de ne penser qu’à nos
besoins. Mais marcher ensemble – c’est-à-dire être « synodal » – c’est aussi la
vocation de l’Église. Demandons-nous dans quelle mesure nous sommes réellement
des communautés ouvertes et inclusives envers tout le monde ; si nous sommes
capables de travailler ensemble, prêtres et laïcs, au service de l’Évangile ; si nous
avons une attitude d’accueil – non seulement avec des mots mais avec des gestes
concrets – envers ceux qui sont loin et envers tous ceux qui s’approchent de nous,
ne se sentant pas à la hauteur à cause de leurs parcours de vie mouvementés. Les
faisons-nous sentir qu’ils font partie de la communauté ou bien les excluons-nous ?
J’ai peur quand je vois des communautés chrétiennes diviser le monde entre les
bons et les mauvais, entre les saints et les pécheurs : c’est ainsi qu’on finit par se
sentir meilleurs que les autres et écarter nombre de ceux que Dieu veut embrasser.
S’il vous plait, toujours inclure, dans l’Église comme dans la société, encore
marquée par tant d’inégalités et de marginalisations. Inclure tout le monde. Et
aujourd’hui, le jour où Scalabrini devient saint, je voudrais penser aux migrants.
L’exclusion des migrants est scandaleuse ! En fait, l’exclusion des migrants est
criminelle, elle les fait mourir devant nous. Et ainsi, aujourd’hui nous avons la
Méditerranée qui est le plus grand cimetière du monde. L’exclusion des migrants est
dégoûtante, elle est immorale, elle est criminelle. Ne pas ouvrir les portes à ceux
qui sont dans le besoin. “Non, nous ne les excluons pas, nous les renvoyons” : dans
les camps, où ils sont exploités et vendus comme esclaves. Frères et sœurs,
aujourd’hui, pensons à nos migrants, à ceux qui meurent. Et ceux qui sont capables
d’entrer, les recevons-nous comme des frères ou les exploitons-nous? Je laisse la
question, seulement.
Le deuxième aspect est l’action de grâce. Dans le groupe des dix lépreux, il n’y en a
qu’un seul qui, se voyant guéri, retourne louer Dieu et montrer de la gratitude à
Jésus. Les neuf autres sont guéris, mais partent ensuite chacun de son côté,
oubliant Celui qui les a guéris. Oublier les grâces que Dieu nous donne. Le
Samaritain, en revanche, fait du don qu’il a reçu le début d’un nouveau chemin : il

retourne vers Celui qui l’a guéri, il va pour connaître Jésus de près, il commence
une relation avec Lui. Son attitude de gratitude n’est donc pas un simple geste de
courtoisie, mais le début d’un parcours de reconnaissance : il se prosterne aux
pieds du Christ (cf. Lc 17, 16), c’est-à-dire qu’il fait un geste d’adoration ; il
reconnaît que Jésus est le Seigneur, et qu’Il est plus important que la guérison
reçue.
Et frères et sœurs, c’est une grande leçon aussi pour nous qui bénéficions chaque
jour des dons de Dieu, mais qui suivons souvent notre propre chemin, oubliant de
cultiver une relation vivante, réelle avec Lui. C’est une vilaine maladie spirituelle :
tout considérer comme acquis, même la foi, même notre relation avec Dieu, au
point de devenir des chrétiens qui ne savent plus s’étonner, qui ne savent plus dire
“merci”, qui ne se montrent pas reconnaissants, qui ne savent pas voir les
merveilles du Seigneur. “Chrétiens à l’eau de rose”, comme disait une dame que j’ai
connue. C’est ainsi que nous finissons par penser que tout ce que nous recevons
chaque jour est évident et dû. La gratitude, le fait de savoir dire « merci », nous
amène au contraire à affirmer la présence du Dieu-amour. Et aussi à reconnaître
l’importance des autres, en surmontant l’insatisfaction et l’indifférence qui
enlaidissent le cœur. Il est fondamental de savoir rendre grâce. Chaque jour, dire
merci au Seigneur, chaque jour, savoir nous remercier les uns les autres : en
famille, pour ces petites choses que nous recevons parfois sans même nous
demander d’où elles viennent ; dans les lieux que nous fréquentons
quotidiennement, pour les nombreux services dont nous bénéficions et pour les
personnes qui nous soutiennent ; dans nos communautés chrétiennes, pour l’amour
de Dieu que nous expérimentons à travers la proximité des frères et sœurs qui,
souvent en silence, prient, offrent, souffrent, marchent avec nous. S’il vous plait,
n’oublions pas ce mot clé : merci ! N’oublions pas d’entendre et de dire “merci” !
Les deux saints canonisés aujourd’hui nous rappellent l’importance de marcher
ensemble et de savoir rendre grâce. L’évêque Scalabrini, qui fonda deux
Congrégations pour le soin des migrants, une masculine et une féminine, affirmait
que dans la marche commune de ceux qui émigrent, il ne faut pas voir seulement
des problèmes, mais aussi un dessein de la Providence : « C’est justement à cause
des migrations forcées par les persécutions – disait-il – que l’Église a dépassé les
frontières de Jérusalem et d’Israël et est devenue « catholique » ; grâce aux
migrations d’aujourd’hui, l’Église sera un instrument de paix et de communion entre
les peuples » (L’emigrazione degli operai italiani, Ferrara 1899). Il y a une migration,
en ce moment, ici en Europe, qui nous fait beaucoup souffrir et nous pousse à
ouvrir notre cœur : la migration des Ukrainiens qui fuient la guerre. N’oublions pas
aujourd’hui l’Ukraine meurtrie ! Scalabrini regardait au-delà, il regardait en avant,
vers un monde et une Église sans barrières, sans étrangers. Pour sa part, le frère
salésien Artemide Zatti, avec sa bicyclette, a été un exemple vivant de gratitude :

guéri de la tuberculose, il a consacré toute sa vie à gratifier les autres, à soigner les
malades avec amour et tendresse. On dit qu’il a été vu portant le cadavre d’un de
ses malades sur ses épaules. Plein de gratitude pour ce qu’il avait reçu, il voulut
dire son « merci » en prenant sur lui les blessures des autres. Deux exemples.
Prions pour que nos saints frères nous aident à marcher ensemble, sans murs de
séparation, et à cultiver cette noblesse d’âme si agréable à Dieu qu’est la gratitude.

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DISCOURS DU SAINT-PÈRE FRANÇOIS AUX SALÉSIENS CONVENTÉS POUR LA CANONISATION DU BIENHEUREUX ARTÉMIDE ZATTI

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Chers frères et sœurs salésiens, bonjour et bienvenue !
Je remercie le Recteur Majeur pour sa présentation ; Je salue les membres du
Conseil général, les cardinaux et les évêques salésiens – ils sont si nombreux ! – ;
Je suis heureux d’accueillir les pèlerins de Boretto, la ville natale d’Artemide Zatti,
et ceux d’Argentine et des Philippines ; Je salue les membres de la Famille
salésienne de nombreux pays du monde, en particulier les frères salésiens. Et un
salut particulier à la personne qui a reçu la grâce de la guérison par l’intercession
du Bienheureux, que j’aurai la joie de canoniser demain. Je voudrais rappeler sa
figure sous quatre angles.
Tout d’abord, en tant que migrant. Les salésiens sont arrivés en Argentine en 1875
et ont d’abord exercé leur apostolat à Buenos Aires. A Buenos Aires, ils ne sont pas
allés dans le quartier le plus important, ils sont allés à Boca, où il y avait les
communistes, les socialistes, les mangeurs de prêtres ! Les salésiens s’y sont
rendus, et dans d’autres lieux, surtout en faveur des émigrants italiens. Artemide a
rencontré les Salésiens à Bahía Blanca, où en 1897 lui et sa famille étaient venus
d’Italie. Malheureusement, de nombreux migrants ont perdu les valeurs de la foi,
tous rattrapés par le travail et les problèmes qu’ils ont rencontrés. Mais les Zatti,
Dieu merci, étaient une exception. Participation à la vie de la communauté
chrétienne, relations cordiales avec les prêtres, prière commune à la maison, la
fréquence des sacrements n’a pas manqué. Artemis a grandi dans un excellent
environnement chrétien et, grâce aux conseils du Père Carlo Cavalli, le choix de la
vie salésienne a mûri.
Un deuxième aspect, « parenté » : il était « parent de tous les pauvres » ; c’est la
relation de Zatti. La tuberculose qui le frappa à l’âge de vingt ans semblait devoir
mettre un terme à tout rêve, mais, grâce à la guérison obtenue par l’intercession de
Marie Auxiliatrice, Artémis consacra toute sa vie aux malades, surtout aux plus

pauvres, les abandonnés et les rejetés. Les hôpitaux de San José et de Sant’Isidro
étaient une ressource sanitaire précieuse et unique pour le soin surtout des pauvres
de Viedma et de la région du Rio Negro : l’héroïsme de Zatti en a fait des lieux
d’irradiation de l’amour de Dieu, où les soins de santé deviennent une expérience
de salut. Dans ce bout de terre de Patagonie, où coule la vie de notre Bienheureux,
une page de l’Evangile a été réécrite : le Bon Samaritain a trouvé en lui le cœur, les
mains et la passion, surtout pour les petits, les pauvres, les pécheurs, les plus
petits . Ainsi un hôpital est devenu « l’Auberge du Père », signe d’une Église qui se
veut riche en dons d’humanité et de grâce, demeure du commandement de l’amour
de Dieu et du frère, lieu de santé comme gage de salut . Il est vrai aussi que cela
entre dans la vocation salésienne : les salésiens sont les grands éducateurs du
cœur, de l’amour, de l’affectivité, de la vie sociale ; grands éducateurs du cœur.
L’hôpital et les maisons des pauvres, visités nuit et jour en se déplaçant à vélo,
étaient la frontière de sa mission. Il a vécu le don total de lui-même à Dieu et la
consécration de toutes ses forces au bien de son prochain. Le travail intense et la
disponibilité inlassable aux besoins des pauvres étaient animés par une profonde
union avec le Seigneur : prière constante, adoration eucharistique prolongée, prière
du chapelet. Artémis est un homme de communion, qui sait travailler avec les
autres : religieuses, médecins, infirmières ; et par son exemple et ses conseils il
forme les hommes, façonne les consciences, convertit les cœurs.
Troisièmement, nous le voyons comme un frère salésien. Nous nous souvenons du
beau témoignage qu’il donna en 1915 à Viedma, à l’occasion de l’inauguration d’un
monument à la mémoire du Père Evasio Garrone, missionnaire salésien et considéré
par Artemide comme un bienfaiteur exceptionnel. A cette occasion il fit cette
déclaration : « Si je vais bien, je suis en bonne santé et en mesure de faire un peu
de bien à mon voisin malade, je le dois au Père Garrone, Médecin, qui voyant ma
santé se détériorer de jour en jour , étant je souffre de tuberculose avec
hémoptysie fréquente, il m’a dit de façon décisive que, si je ne voulais pas finir
comme beaucoup d’autres, je ferais la promesse à Marie Auxiliatrice de rester
toujours à ses côtés, l’aidant dans les soins des malades, que lui, confiant en Marie,
me donnerait la guérison. CROIRE, parce que je savais de réputation que Marie
Auxiliatrice l’aidait de façon visible. PROMISI, parce que j’ai toujours voulu aider
mon prochain dans quelque chose. Et, ayant écouté Dieu son serviteur, GUÉRI ».
J’ai cru, j’ai promis, j’ai guéri. Trois mots écrits là.
Cette vie retrouvée n’est plus sa propriété : il sent que tout est pour les pauvres.
Les trois verbes « cru, promis, guéri » expriment la bénédiction et la consolation qui
touchent la vie d’Artémis. Il vit cette mission en communion avec ses confrères
salésiens : il est le premier présent aux moments communautaires et avec sa joie
et sa sympathie il anime la fraternité.

Le quatrième et dernier tronçon que vous voulez je souligne : il est intercesseur
pour les vocations. Et j’ai vécu cela. Je vous raconte une expérience personnelle.
Quand j’étais Provincial des Jésuites d’Argentine, j’ai connu l’histoire d’Artemide
Zatti, j’ai lu sa biographie et je lui ai confié la demande au Seigneur pour les saintes
vocations de laïcs consacrés pour la Compagnie de Jésus. pour prier par son
intercession, les jeunes coadjuteurs ont considérablement augmenté ; et ils étaient
persistants et très occupés. Et ainsi j’ai témoigné de cette grâce que nous avons
reçue. […]

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DISCOURS DU SAINT-PÈRE FRANÇOIS AUX PARTICIPANTS AU CHAPITRE GÉNÉRAL DE MISSIONNAIRES OBLATS DE L’IMMACULÉE MARIE

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Chers frères, bonjour et bienvenue!
Je suis heureux de vous rencontrer à l’occasion de votre Chapitre général. Je
remercie le Supérieur général – pauvre garçon, enlevé du désert et amené ici à
Rome ! – pour son introduction, et je lui souhaite, ainsi qu’au nouveau Conseil, un
travail serein et fructueux. Et nous remercions le Supérieur et les Conseillers qui
ont terminé leur service.
Vous êtes une famille religieuse vouée à l’évangélisation et vous êtes réunis pour
discerner ensemble l’avenir de votre mission dans l’Église et dans le monde. Vous
avez choisi, pour ce Chapitre, un thème exigeant, très semblable à celui choisi pour
le prochain Jubilé de l’Église : « Pèlerins d’espérance en communion ». C’est un
thème qui résume votre identité sur les routes du monde, auxquelles, en tant que
disciples de Jésus et disciples de votre fondateur saint Eugène de Mazenod, vous
êtes appelés à apporter l’Evangile de l’espérance, de la joie et de la paix. C’est un
monde qui, si d’une part il semble avoir atteint des objectifs qui semblaient
inaccessibles, d’autre part il est encore esclave de l’égoïsme et plein de
contradictions et de divisions. Le cri de la terre et celui des pauvres, les guerres et
les conflits qui ont ensanglanté l’histoire humaine, la situation affligeante de
millions de migrants et de réfugiés, une économie qui rend les riches plus riches et
les pauvres plus pauvres, sont quelques aspects d’un scénario où seul l’Evangile
peut garder allumée la lumière de l’espérance.
Vous avez choisi d’être des pèlerins, de retrouver et de vivre votre condition de
voyageurs dans ce monde, aux côtés des hommes et des femmes, des pauvres et
des petits de la terre, à qui le Seigneur vous envoie pour annoncer son Royaume.
Votre Fondateur était aussi un voyageur, aux origines de votre famille religieuse,
lorsqu’il se promenait avec ses premiers compagnons dans les villages de sa
Provence natale, prêchant les missions populaires et ramenant à la foi les pauvres

qui s’étaient éloignés et que le ministres aussi de l’Église avaient abandonné. C’est
une tragédie quand les ministres de l’Église abandonnent les pauvres.
Pèlerins et voyageurs, toujours prêts à partir, comme Jésus avec ses disciples dans
l’Evangile. En tant que Congrégation missionnaire, vous êtes au service de l’Église
dans 70 pays à travers le monde. A cette Église, que le Fondateur t’a appris à aimer
comme une mère, offre ton élan missionnaire et ta vie, en participant à son exode
vers les périphéries du monde aimé de Dieu, et en vivant un charisme qui te
conduit vers les plus lointaines. , les plus pauvres, ceux que personne n’atteint. En
marchant sur ce chemin avec amour et fidélité, vous, chers frères, rendez un grand
service à l’Église.
Vous avez ressenti l’appel à redécouvrir votre identité de prêtres et de frères unis
par les liens de la consécration religieuse. Pèlerins de l’espérance, cheminez avec le
saint peuple de Dieu, en vivant fidèlement votre vocation missionnaire, avec les
laïcs et les jeunes qui partagent dans l’Église le charisme de votre saint Fondateur
et qui souhaitent participer activement à votre mission. Saint Eugène vous a appris
à regarder le monde avec les yeux du Sauveur crucifié, ce monde pour le salut
duquel le Christ est mort sur la croix.
Vous avez déjà consacré l’un de vos Chapitres généraux précédents au thème de
l’espérance, alors que vous ressentiez un appel particulier à être témoins de cette
vertu dans un monde qui semble l’avoir perdue et qui cherche ailleurs la source de
son bonheur. Être missionnaires de l’espérance, c’est savoir lire les signes de sa
présence cachée dans la vie quotidienne des gens. Apprenez à reconnaître
l’espérance chez les pauvres vers qui vous êtes envoyés, qui parviennent souvent à
la trouver au milieu des situations les plus difficiles. Laissez-vous évangéliser par
les pauvres que vous évangélisez : ils vous enseignent le chemin de l’espérance,
pour l’Église et pour le monde.
De plus, vous voulez être des témoins d’espérance dans la communion. La
communion aujourd’hui est un défi dont peut dépendre l’avenir du monde, de
l’Église et de la vie consacrée. Pour être missionnaires de la communion, nous
devons d’abord la vivre entre nous, dans nos communautés et dans les relations
mutuelles, puis la cultiver avec tous sans exception. Au cours de votre Chapitre,
vous avez souvent évoqué le cheminement ecclésial de ce temps, qui redécouvre la
beauté et l’importance du « chemin ensemble ». Je vous exhorte à être des
promoteurs de communion à travers des expressions de solidarité, de proximité, de
synodalité et de fraternité avec tous. Que le Bon Samaritain de l’Evangile soit un
exemple et un stimulant pour vous rapprocher de tous, avec l’amour et la tendresse
qui l’ont poussé à prendre soin de l’homme volé et blessé (cf. Lc 10, 29-37). Être
proche est un travail de tous les jours, parce que l’égoïsme vous attire, vous tire
vers le bas, être proche, c’est sortir.

Dans ce Chapitre, vous avez aussi souvent évoqué votre engagement pour la
maison commune, essayant de le traduire en décisions et actions concrètes. Il vous
encourage Je continue à travailler dans ce sens. Notre mère la terre nous nourrit
sans rien demander en retour ; c’est à nous de comprendre qu’il ne peut pas
continuer à le faire si nous ne nous en occupons pas aussi. Ce sont tous des aspects
de cette conversion à laquelle le Seigneur nous appelle continuellement. Revenir au
Père commun, revenir aux sources, revenir au premier amour qui t’a poussé à tout
quitter pour suivre Jésus : c’est l’âme de la consécration et de la mission !
Que votre Fondateur, le charisme qu’il vous a transmis et sa vision missionnaire
soient et restent des points de référence pour votre vie et votre travail ; rester
enraciné dans votre vocation missionnaire, surtout en vivant le testament du
Fondateur, dans l’amour mutuel entre vous et dans le zèle pour le salut des âmes.
C’est le cœur de votre mission et le secret de votre vie, et pour cela l’Église a
encore besoin de vous. Dans l’immense champ de mission qu’est le monde entier,
que Jésus soit toujours votre modèle, comme il l’a été pour saint Eugène. Devant le
Sauveur crucifié, il décida un jour d’offrir sa vie pour que tous, surtout les pauvres,
puissent connaître le même amour de Dieu qui l’avait ramené sur le chemin de la
foi.
Cette année, vous avez célébré le souvenir d’une grâce particulière que saint
Eugène a reçue il y a deux siècles devant la statue de la Vierge Immaculée dans
l’église de la mission d’Aix-en-Provence. Cela vous renouvelle l’invitation à prendre
Marie comme compagne de voyage, afin qu’elle vous accompagne toujours dans
votre pèlerinage. Marie en pèlerine, Marie en voyage, Marie qui s’est levée en hâte
pour aller servir. Après avoir dit son « oui » à Dieu par l’archange Gabriel, elle partit
précipitamment pour aller chez sa cousine Elisabeth, partager le don et se mettre à
son service. Que Marie soit un exemple en cela aussi, pour votre vie et pour votre
mission.
Chers frères, je vous souhaite une bonne conclusion du Chapitre et je vous
accompagne par la prière. Je vous bénis de tout cœur ainsi que tous vos confrères,
en particulier ceux qui sont malades et plus fragiles et ceux qui sont en difficulté en
ce moment. Et vous aussi, s’il vous plaît, priez pour moi. Merci!